Un insigne medievista stiglianese

di Angelo Colangelo.

Premessa

Tra coloro che l’hanno conosciuto bene c’è chi lo descrive come un uomo «schivo, di poche parole, che aveva nel volto […] una profonda e struggente tristezza, cui sembrava sottesa una concezione pessimistica della vita, uno scetticismo che è proprio di chi sa».i

Altri ricorda che «portava tutto il carico delle sapienze storiche della sua generazione misuratasi con Benedetto Croce, con l’Istituto Storico Italiano per il Medioevo, con guerra e dopoguerra, con il Sud della Basilicata di Rocco Scotellaro». D’altronde, il futuro di Stigliano e della regione lo «viveva con perplessità, con qualche caduta di fiducia, con tutto quel suo disperato modo di amarlo in silenzio, magari senza nemmeno più andarci nella sua terra».ii

Volendo dare un ultimo tocco al ritratto dello storico stiglianese Nicola Cilento, si può rilevare ancora che a lui ben si confanno le parole di Beda il Venerabile: «Semper aut discere aut docere aut scribere dulce habui». Cilento, infatti, consumando l’intera sua esistenza tra la ricerca, l’insegnamento e la scrittura, ci ha consegnato, prezioso lascito, molte opere e importanti riflessioni su un’età, quella medioevale, che non sempre dagli storici fu indagata correttamente e spesso è stata a torto sottovalutata.

La vita

Nicola Cilento nacque il 10 settembre del 1914 a Stigliano, un paese della Lucania interna, che all’epoca contava poco più di 7000 abitanti. Nell’anno in cui egli nasceva, due fratelli più grandi furono costretti a partire: Vincenzo, destinato a diventare uno dei più eminenti studiosi al mondo di Plotino e della filosofia neoplatonica, dopo le elementari entrò nella Scuola Apostolica Barnabitica di San Giorgio a Cremano; Antonio, dopo avere imparato il mestiere di calzolaio nella bottega paterna, all’età di soli sedici anni decise di emigrare a New York con il padre Giuseppe.

Quest’ultimo era uno dei tanti che in quei tristi tempi tormentati dalla miseria, per migliorare le disagiate condizioni economiche della famiglia, tentava l’avventura americana. Nel 1914 lo fece per la seconda volta, dopo essere emigrato già nel 1906 a Buenos Aires, da dove era tornato al paese dopo meno di un anno, più povero e sconsolato di quando era partito. Essendo anche il figlio primogenito Ottaviano lontano da casa per ragioni di studio, proprio mentre incombeva la tragedia della prima guerra mondiale, a Stigliano restarono solo la moglie Filomena Cavaliere, la piccola Margherita di appena tre anni e l’ultimo arrivato ancora in fasce.

Questi, come gli altri fratelli, venne alla luce nell’antico palazzo di Nicola Rasole, situato ai piedi del Castello dei Principi Colonna e salito alla ribalta della storia locale, per essere stato nel fatidico anno 1799 teatro di un dramma grandguignolesco: dopoché una folla tumultuante di popolani rivoltosi aveva assaltato e invaso la casa, i più facinorosi inseguirono fin nel soffitto il proprietario, reo, a loro dire, di essere contrario alla rivoluzione e di avere fatto spiantare l’albero della libertà, lo assassinarono insieme con quattro suoi servitori e ne mutilarono orrendamente i corpi.

Dopo le scuole elementari anche il più piccolo dei Cilento lasciò Stigliano e frequentò il ginnasio e il liceo nel prestigioso Istituto fiorentino dei Padri Barnabiti “Alla Querce”.

Nicola Cilento convittore (Archivio Rocco De Rosa)

Col passare degli anni il paese natale lo vide sempre più raramente, ma non lo dimenticò e se lo portò sempre nel cuore. Ne è viva testimonianza l’incipit di un testo, in cui s’intrecciano memoria storica e ricordi personali sull’antico convento di Sant’Antonio, distrutto nel 1833 da una frana rovinosa. «Quando anch’io ero un ragazzo, – scrive Cilento – nel mio paese natale (Stigliano) arroccato, alto, su un monte di questa Lucania, l’incontro lieto con i miei compagni di gioco si faceva ogni giorno in un grande spiazzo erboso tutt’intorno circondato da alte muraglie diroccate e da pilastri su cui ancora reggeva qualche arcata cadente; la gente chiamava quel luogo “il convento a basso”; ma nulla di più dicevano di sé quelle antiche rovine».iii

Stigliano Cartolina 1925, Ruderi del vecchio Convento (archivio Enzo Geronimo)

Altri ricordi affiorano altrove con la rievocazione di immagini, tradizioni e storie del paese: «la Chiesa madre percorsa ginocchioni o la pratica di lingere lingua terram “trascinandola” fino a farla sanguinare; un simulacro di Vergine Addolorata avvolta in scialli neri come le contadine lucane e trafitta nel petto da sette lucide spade; la favoleggiata lugubre teoria delle anime morte risalenti dal cimitero a cibarsi nelle loro case nella prima notte di novembre; la querula litania di pastori questuanti nel giorno di S. Silvestro a mostrare la pelle del loro antico nemico, il lupo; la presenza beffarda in ogni casa – quasi domestico lare – di un demone folletto, il “monaciello”; i confratelli della buona morte lugubremente ammantati e incappucciati; i petti nudi e scheletrici percorsi da fieri colpi di pugni ossuti».iv

Ben a ragione Cosimo Damiano Fonseca afferma che il persistente ricordo del lontano paese nativo, ricorrente nei suoi pensieri e nei suoi scritti, ci offre la prova che “pretesti della memoria” e “decrittazione storica” debbono essere considerati i due poli entro i quali «si iscrive il sofferto rapporto fra Nicola Cilento e la Basilicata».v

Dopo avervi conseguito la maturità classica, il giovane studente stiglianese rimase a Napoli per iscriversi all’Università. Nel 1940, pochi mesi dopo l’ingresso dell’Italia in guerra, si laureò in lettere classiche con una tesi in storia medioevale, relatore Ernesto Pontieri, di cui fu assistente per alcuni anni. In quel tempo ebbe modo di conoscere e di legarsi anche a Raoul Manselli, allievo di Adolfo Omodeo, che sarebbe diventato un valoroso studioso della Chiesa medievale e dell’ordine francescano. Tra loro nacque presto un lungo e fecondo rapporto di amicizia e di studi.

Cilento insegnò come incaricato in alcuni licei napoletani e alla Scuola Militare della Nunziatella, finché, superato il concorso a cattedra per l’insegnamento di storia e filosofia, nel 1951 fu assegnato al liceo “Marco Galdi” di Cava dei Tirreni, che era allora sede staccata del Tasso di Salerno. Si trasferì poi al liceo Umberto I di Napoli e nel contempo fu “comandato” presso la Scuola Storica Nazionale a Roma, dove a lungo svolse la funzione di segretario scientifico.

Dal 1968 fu professore straordinario di Storia medioevale nella Università di Macerata e poi docente ordinario per la stessa disciplina a Salerno e all’Istituto Universitario di Magistero “Suor Orsola Benincasa” a Napoli. A Salerno dal 1974 al 1977 ricoprì la carica di Rettore, avviando la progettazione esecutiva del polo universitario di Fisciano, e diresse l’Istituto di Filologia e Storia Medioevale. Non stupisce, pertanto, che, per volere del nipote Francesco Guida, che ne era l’erede designato, il fondo librario cilentano, costituito di oltre 3500 preziosissimi volumi, sia stato acquisito circa dieci anni fa dalla Biblioteca dell’Università salernitana.

Fino alla morte, avvenuta a Napoli il 16 novembre 1988, Cilento visse una vita interamente dedicata agli studi e all’insegnamento, per cui meritò molti e importanti riconoscimenti in Italia e all’estero.

Nicola Cilento, ricordino (Archivio Angelo Colangelo)

Non è il caso di citarli tutti, ma non si può fare a meno di ricordare che dalla prestigiosa “Accademia polacca delle Scienze” gli fu conferita la medaglia “Niccolò Copernico”, per aver dato vita a una felice cooperazione fra l’Italia e la Polonia nell’ambito della Archeologia Medievale con la realizzazione a Salerno e a Capaccio di importanti scavi, che portarono alla luce reperti di straordinario valore.

Le opere

L’intenso impegno culturale di Nicola Cilento è attestato da un numero impressionante di pubblicazioni sulla storia dell’Alto Medioevo, in cui lo studio certosino dei documenti costituì la base per indagare in modo approfondito e sistematico due tematiche in particolare, la presenza nel sud della penisola dei Longobardi e la nascita delle comunità monastiche bizantine, che ebbero effetti rilevanti sulla vita sociale, economica e culturale del Mezzogiorno d’Italia.

Italia meridionale longobarda

A tale riguardo meritano di essere citate “Italia Meridionale Longobarda”,La Metropolia di Capua (964-1964)” e “Le origini della Signoria Capuana nella Longobardia Minore”, tre opere in cui, attraverso una analisi accurata delle fonti e raffinate esegesi, l’autore ricostruisce l’arrivo dei Longobardi nel meridione e mette a fuoco il ruolo che essi ebbero dal punto di vista politico nella Longobardia Minore, cioè nelle regioni interne della Campania e in Marsica, Molise, Abruzzo Citeriore, Daunia e Bruzio Superiore.

la metropolia di Capua

Cilento, inoltre, non manca di occuparsi anche della questione meridionale, da lui considerata in una prospettiva diversa rispetto alla tendenza dominante, in base alla quale solo con l’unità d’Italia sarebbero sorti i contrasti e il divario fra Nord e Sud e avrebbe avuto inizio la regressione del Mezzogiorno. Ritenendo, invece, necessario risalire a ritroso nei secoli, per scoprire le ragioni vere dei processi storici, egli individua le radici della storica questione meridionale nella conquista normanna, che a suo parere svilì e mortificò «le autonomie cittadine con la conseguente diseducazione all’autogoverno».

Di grande significato è anche il saggio “Segni e sopravvivenze della Lucania bizantina”, dove si mostra come l’analisi storica e l’archeologia dei comportamenti mettano in risalto la perdurante disgregazione della Lucania, evidenziata già allora dalle disomogeneità tra il Melfese, le aree ioniche e tirreniche, i territori del Potentino e del Materano, i paesi delle zone interne.

A tale aspetto, ancora oggi rilevante, è intimamente connesso, secondo Cilento, il fenomeno dello spopolamento che tra il V e l’VIII secolo interessò vaste aree dell’Europa. Lo stesso Papa Gregorio Magno prese atto con sgomento che tutta la terra versava in uno stato di desertificazione («in solitudine vacat terra»), mentre lo storico Paolo Diacono, descrivendo con plastica evidenza una terribile pestilenza, immaginò e temette che la sua epoca fosse destinata ad essere restituita per sempre al silenzio originario: «Videres saeculum in antiquum redactum silentium».vi

In quell’epoca, peraltro, anche il territorio lucano assisté a un notevole calo demografico e le popolazioni di Metaponto, Heraclea, Syris, Pandosia, Elea-Velia e Poseidonia-Paestum si ritirarono dalle coste ioniche e tirreniche e si rifugiarono sulle alture appenniniche, che offrivano una naturale e più sicura difesa. Avvenne, in sostanza, il contrario di quanto accade nel nostro tempo, in cui, per le esigenze imposte da un contesto sociale ed economico del tutto mutato, si verifica un esodo massiccio dalle aree interne verso la pianura.

Cilento, inoltre, analizza con acutezza un altro evento, che si verificò dopo l’invasione del Peloponneso da parte degli Àvari e che avrebbe inciso profondamente sulla storia del Mezzogiorno nei secoli seguenti: le invasioni islamiche. Per l’editto emanato da Leone III Isaurico contro l’iconodulia, allo scopo di combattere il culto delle immagini sacre, dall’Oriente si riversò sulle coste ioniche dell’Italia meridionale una moltitudine di profughi. Fra questi vi erano numerosi monaci greci, che si stabilirono con le loro icone e i loro preziosi codici miniati anche in Basilicata e la popolarono non solo di schite, cioè di eremi, ma anche di laure, vale a dire di strutture formate da gruppi di celle separate, che avevano però in comune la chiesa e il sacerdote.

Fu con tale sistema di vita comunitaria che ebbe inizio e si attuò l’evangelizzazione delle popolazioni contadine lucane. Gli insediamenti monastici ebbero anche una funzione di sicurezza e di protezione, al pari degli insediamenti rupestri, che non erano solo cripte eremitiche, ma costituivano veri e propri complessi urbani scavati nelle rocce tufacee, soddisfacendo un insopprimibile bisogno di vita sociale.

Nei secoli IX e X con la diffusione del monachesimo s’incrementarono, dunque, gli insediamenti umani, che resistettero con alterna fortuna alle incursioni di popolazioni africane islamizzate, i temuti Saraceni. A tale riguardo Cilento recupera e propone un documento molto prezioso risalente ai primi anni dopo il Mille, in cui è attestata la vicenda di un infedele di nome Luca, che occupò con i suoi uomini Pietrapertosa, da dove mosse nel territorio di Tricarico, per mettere in atto rapine ed estorsioni. Il nome del borgo fortificato tricaricese della Rabatana ne tramanda ancora la memoria.

Conclusione

Non essendo nostra intenzione esaminarne in modo approfondito ed organico l’attività storiografica, ci pare opportuno porre termine al breve ricordo di Nicola Cilento, non senza aver prima richiamato, però, un frammento della testimonianza di un suo allievo, che contribuisce a illuminare il profilo fin qui disegnato. Gerardo Sangermano annota che il Maestro «avvertì forte il senso dell’esistenza intesa come “milizia”» e anche per questo si preoccupò sempre di «comprendere quanto ogni giorno gli accadeva intorno, avvicinarsi ai temi e ai tempi delle più giovani generazioni». Tutto ciò costituisce la prova lampante «di un’ansia di sapere e di conoscere dispiegata per ampio raggio, senza preclusioni o albagie accademiche, che faceva veramente di Cilento un testimone del suo tempo».vii

Le parole di Sangermano servono anche a spiegare e giustificare questo nostro scritto, che non è un mero atto di omaggio formale verso un concittadino illustre, ma intende offrire uno stimolo a conoscere almeno le opere più rilevanti dell’insigne medievista stiglianese. Chi, infatti, si avvicinasse solo ad alcuni degli innumerevoli saggi cilentani, scoprirebbe una gran copia di pagine dense di fatti e protagonisti davvero interessanti, come possono provare due casi, che, a nostro modesto avviso, possono essere considerati esemplari.

Nicola Cilento, il primo a dx guardando, con Padre Bernasconi, il fratello P. Vincenzo, Vittorio De Falco (archivio Angelo Colangelo)

Innanzi tutto, mette conto di segnalare la traduzione, l’accurata analisi critica e la puntuale ricostruzione storica del famoso documento, noto come “Carta capuana” o “Placito cassinese” e oggi conservato nella Abbazia di Montecassino, che attiene alla famosissima disputa fra i monaci benedettini e alcuni confinanti per rivendicare il possesso di due terreni nel territorio di Aquino. Si tratta, com’è noto, della prima testimonianza scritta che prova la diffusione della lingua volgare tra le popolazioni italiche.

Intrigante è, poi, lo studio cilentano di un fatto storico, che va oltre lo stretto recinto degli studi di medievistica, o quanto meno ad essi è solo indirettamente collegato. Riguarda, infatti, la vicenda del canonico capuano Francesco Maria Pratilli, «un morto che non è morto abbastanza», che consente di fare luce sul poco noto, ma curioso e significativo fenomeno, che nel Settecento vide non pochi e valenti letterati trasformarsi in raffinati falsari di fonti storiche, per nobilitare la storia dei loro paesi.

Questi due esempi bastino da soli a far percepire l’inestimabile valore degli studi dello storico stiglianese. Prendendo a prestito le parole che Benedetto Croce scrisse in un noto saggio da lui stesso definito una «autobiografia mentale»,viii si può ora concludere dicendo che la cronaca della vita di Nicola Cilento, del tutto priva di eclatanti eventi esteriori, «in ciò che può presentare di ricordevole, è tutta nella cronologia e nella bibliografia». Le sue innumerevoli opere, che hanno offerto un grande contribuito al progresso degli studi sull’età medioevale, illuminandone talvolta aspetti ancora inesplorati, rappresentano una guida sapiente e sicura verso la conoscenza di un tratto molto importante della storia del Mezzogiorno d’Italia.

i Aldo Trione, Malinconia e moralità didattica, in Schola Salernitana, Annali 1996, Atti del Seminario internazionale di studio (16-17 novembre 1989), Nicola Cilento storico del Mezzogiorno medievale, Avagliano, Roma, p. 15

ii Massimo Oldoni, Le “voci di dentro” di Nicola Cilento, ibidem, p. 17

iii Nicola Cilento, Segni e sopravvivenze della Lucania bizantina, Matera 1979, p. 27

iv ibidem, pp. 69-70

v Cosimo Damiano Fonseca, Nicola Cilento e la Basilicata, in Schola Salernitana, o. c., p. 69

vi Paulus Diaconus, De Gestis Longobardorum 2, 4

vii Gerardo Sangermano, Testimonianza, in Schola Salernitana, o. c., passim

viii Benedetto Croce, Contributo alla critica di me stesso, Ricciardi, Napoli, 1918, p. 4

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