Una strana notte di mezza estate

Venti giorni fa, era il 16 agosto, attraversavo in macchina con alcuni amici il bosco di Cirigliano. D’un tratto, sparito il fondale compatto degli alberi secolari, per pochi istanti si accamparono davanti agli occhi le immagini delle famigerate torri di Tempa Rossa. Apparivano e scomparivano alla vista, come in un diabolico gioco condotto da un abile illusionista. Le lunghe lingue di fuoco, che le sovrastavano, lambivano il cielo quasi in atto di sfida e si ritraevano poi solo per un momento, pronte a un nuovo e minaccioso assalto.
Un barbaglio di luce nel buio fondo della notte e perdipiù in un bosco dovrebbe essere sempre rassicurante. Invece, quelle livide fiamme che, viste da lontano, sembravano fuoruscire dalle viscere stesse della terra, disegnavano fantasmi mostruosi nell’oscurità notturna impastata di un silenzio irreale e incutevano un misterioso timore. Nulla a che vedere con i rassicuranti e suggestivi falò dei contadini nelle campagne della Valle del Belbo immortalati da Cesare Pavese.

Nel cuore della notte, erano circa le due, sul balcone di casa potei scorgere di nuovo, da una distanza maggiore e in una diversa prospettiva, Tempa Rossa, che emanava un’alta, densa e acre colonna di fumo. Mi ricordai subito dell’espressione che, mentre guidava, il mio amico Franco aveva sibilato in macchina tre ore prima, come se sputasse una maledizione: “Eccolo lì, il mostro!”.
Mi tornarono dunque in mente le mille storie di questa nostra terra misteriosa, eternamente popolata da miti e leggende incredibili. Ripensai al Drago, che abitava in una grotta vicino al fiume e infestava questi luoghi costringendo gli indifesi contadini alla disperazione e alla miseria. Fino a quando un valoroso Principe, protetto dalla potente Madonna Nera di Viggiano che era discesa dal Sacro Monte in suo aiuto, riuscì a vincere il mostro, liberando le campagne dalla sua pestifera presenza.
Ma i miti e le leggende, si sa, sono una narrazione fantastica, che aiuta a spiegare e a comprendere il profondo mistero della storia e della vita degli uomini. Chissà, forse la leggenda del Drago un tempo rappresentava la metafora dei tristi Signori che in età feudale tenevano asservita la povera gente, espropriandola dei più elementari diritti e obbligandola a condizioni di vita inumane.
Nel nostro tempo, mi dico ora ammirando l’unghia di luna incastonata nel cielo stellato, il Drago ha invece mutato pelle e agisce in un contesto diverso, perseguendo comunque gli stessi malefici fini. Il Drago può impersonare oggi i cinici predatori di oro nero, che non esitano a spogliare la terra lucana dei suoi rari tesori. La devastano senza scrupoli e ne distruggono irrimediabilmente l’ambiente, dando in cambio ben poco o addirittura nulla. Non infrastrutture che migliorino la qualità della vita sociale. Non occasioni di lavoro che pongano fine alla interminabile diaspora, che da oltre un secolo e mezzo pesa come una maledizione sui paesi lucani.
L’orgiastica attività estrattiva delle potenti Compagnie petrolifere italiane e straniere, assolutamente anomica grazie alla connivenza dei vassalli politici nazionali e dei valvassori locali, serve così a depauperare il territorio, a compromettere gravemente la situazione sanitaria e ad accelerare il processo di spopolamento già in atto da molti decenni. Nella sconfortata rassegnazione delle popolazioni, che restano inerti di fronte ad ogni sopruso, convinte come sono della ineluttabilità degli eventi. Sembra si sia spenta, insomma, anche la fiamma della rabbia e dell’indignazione.
Come già accadde più volte in passato. Nella Lucania-Basilicata, infatti, rare volte si è avuto un coinvolgimento delle classi popolari nelle vicende storiche nazionali. I contadini, vale a dire la quasi totalità della popolazione lucana, non parteciparono né ai moti liberali che pure fecero capolino in queste contrade, né alla lotta partigiana che qui mancò quasi del tutto, né alla costruzione della democrazia alla fine dell’ultima guerra. I contadini, costretti a dare un notevole contributo di sangue nelle due guerre mondiali certo non volute da loro, parteciparono in massa ed ebbero un ruolo decisivo solo nella dura lotta per l’assegnazione delle terre.

Così divagando e inseguendo confusi pensieri in questa strana notte lucana di mezza estate, mi ritrovo a pensare alla lunga e curiosa storia della scoperta del petrolio in Lucania-Basilicata, che aveva acceso in un primo momento molte e grandi speranze. All’inizio tutti ritennero, infatti, che per questa regione fosse giunta finalmente l’ora del riscatto sociale ed economico, sin da quando nel 1878 alla Esposizione Universale di Parigi fu presentata un’ampolla dell’oro nero lucano.
Trascorsero però alcuni anni, senza che nulla di nuovo accadesse. Solo in era fascista, verso la fine degli anni Trenta, la società Agip, che era appena nata, diede inizio ad una serie di trivellazioni in Val d’Agri. Ma ancora una volta non successe nulla d’importante. E si dovette attendere ancora per alcuni decenni, prima che la questione del petrolio diventasse centrale nella vita sociale ed economica regionale.
Il mio pensiero corre, a questo punto, meccanicamente al corposo e documentato saggio “Il totem nero”, in cui Enzo Vinicio Alliegro, un antropologo lucano, ricostruisce correttamente e sapientemente la cronistoria dell’attività estrattiva in Val d’Agri, a partire dai primi anni del Novecento.
L’analisi dello studioso viggianese, indagando i risvolti sociali e culturali attraverso l’individuazione “del potere dei simboli e dei simboli del potere”, ruota essenzialmente intorno al dilemma “Petrolio energia o Petrolio patologia?”. Un dilemma che non è stato ancora sciolto e rimane più che mai di urgente attualità. Dalla sua soluzione dipenderanno le sorti di tutti i paesi lucani, grandi o piccoli che siano.

Continuo ad essere assediato da questi grevi fantasmi in uno stato di dormiveglia in cui i pensieri si alternano e poi si confondono con strane visioni, sicché per me diventa sempre più difficile distinguere fantasie e realtà. In prossimità dell’alba, per fortuna, finalmente mi addormento.
Mi sveglio di soprassalto intorno alle nove, in preda a un evidente malessere. Mi preoccupo, perciò, di telefonare immediatamente all’amico Nicola Iosca per dirgli che mi è impossibile incontrarlo e salutarlo, come gli avevo promesso la sera avanti. Il Maestro, che sta sistemando nella Chiesa Madre il bel dipinto dell’Assunta di cui ha voluto far dono alla comunità stiglianese, è molto rammaricato e cerca di rassicurarsi sulle mie condizioni di salute.
Don Gaetano, il giovane parroco, che è vicino a lui, ascolta la nostra conversazione e premurosamente mi chiede se può essermi utile. Fingendo di equivocare, tengo a rassicurarlo e gli ribadisco che non sto bene, ma la situazione non mi sembra tanto grave da richiedere l’intervento del prete.
Ripromettendomi di spiegargliene in una prossima occasione in maniera circostanziata le ragioni, avanzo piuttosto una cortese richiesta e lo invito a pregare e ad invocare l’intercessione di Santa Maria Assunta per salvare la nostra terra tanto maltrattata. Sono, infatti, sempre più convinto che sia necessario un autentico miracolo per liberarla dall’indecente saccheggio dei nuovi arroganti predoni.

Angelo Colangelo

 

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