Una maratona di lettura chiude le Giornate FAI a Stigliano

Dopo aver individuato la cappella di San Vincenzo quale sito protagonista delle Giornate FAI di Primavera 2022, è stato naturale, per noi del FAI di Stigliano, ripensare, con gratitudine, al peculiare contributo offerto da Antonio Bisignano nell’ambito della campagna promossa, una decina di anni fa, dall’associazione Angolo della Memoria di Rocco Derosa, a difesa di questo nostro piccolo monumento barocco.

Un contributo concretizzatosi nella pubblicazione e diffusione del suo racconto, Memoria di una tragedia. Il caso dell’artigliere Leonardo Rasulo, quando, scongiurato il pericolo dell’abbattimento, era arrivato il momento di raccogliere fondi per la necessaria messa in sicurezza dell’edificio. 

Una maratona di lettura
Il libro di A. Bisignano a sostegno della raccolta fondi per il restauro della chiesa

Ma, evidentemente, il lavoro dell’amico Antonio B.  ha un valore in sé, che prescinde da queste circostanze contingenti, come ho potuto nuovamente constatare, rileggendolo, un pomeriggio dello scorso gennaio, seduto su una panchina del piazzale della stazione di Bologna. È domenica e fra una corsa e l’altro passano 30 minuti, il tempo necessario per poterlo leggere intero e ingannare, così, l’inutile tempo di attesa del mio autobus.

Giornate FAI a Stigliano concluse con una maratona di letture
Un momento della maratona di lettura

Come tutti i lettori del libro di Antonio B. ricorderanno, l’incipit assomiglia a un cinegiornale di tanti anni fa, uno di quelli che i pubblici affezionati e numerosi dei nostri cinema Odeon e Italia seguivano più o meno distrattamente fra un tempo e l’altro di una pellicola, mentre il cineoperatore di turno riavvolgeva, pazientemente a mano, la bobina appena proiettata. 

«È l’anno 1934 […]. I comunisti cinesi iniziano la Lunga Marcia […]. Il regime fascista celebre suoi fasti […]. Mussolini riceve a Venezia in visita ufficiale Hitler. Viene assassinato il cancelliere austriaco Engelbert Dolfuss, e come lui anche il re Alessandro di Jugoslavia…».   (p. 9)

Un seguito di titoli di testa mozzafiato, che suona particolarmente sinistro in questi giorni di guerra già ipotecati dalla (grande?) Storia, pronta di nuovo a passare, crudelmente, sul cadavere di piccoli e grandi, di uomini e donne. Giorni che ci aiutano a cogliere l’atteggiamento di pietas sotteso alla scelta, evidentemente cinematografica dell’autore, di planare zoomando zoomando – come nella sequenza iniziale del Faust di Aleksandr Sokurov – da chissà quali cieli lontani su Stigliano, via Principe di Napoli, n. 12, il 5 febbraio dell’anno 1934: un giorno qualunque di un anno qualunque proiettati sullo sfondo più grande nel quale le nostre vite si inscrivono, loro malgrado. 

È il giorno di nascita di Leonardo Rasulo, uno dei tanti Rasulo di Stigliano, numerosi, come i Fornabaio, quanto i sassi della via, per dirla un po’ con Verga («Un tempo i Malavoglia erano stati numerosi come i sassi della strada vecchia di Trezza; ce n’erano persino ad Ognina, e ad Aci Castello, tutti buona e brava gente…»).

Ma sì, è il figlio di Giuseppe Rasulo, quello che aveva sposato Angela Cristiano, la “dottoressa” del rione Serra – che faceva le punture a tutto il paese. Famiglia un po’ segnata dal destino, come altre ce ne sono state a Stigliano. Dei molti figli avuti gliene ne morirono ben otto ad Angela e Giuseppe, tutti in tenera età, e poi uno emigrerà in Argentina, un altro partirà per la guerra, e un altro… Insomma una famiglia dove, esemplarmente, vita e morte si contendono il campo, e il dolce e l’amaro si miscelano a sorpresa, ogni giorno in dosaggi sempre più forti: ma una famiglia di affetti tenaci, capaci di durare oltre la morte, se un cacciatore discreto di storie, come Antonio B., può esserne venuto a parte, pur a distanza di decenni dai fatti accaduti. 

Sono così le storie di vita irreversibilmente segnate da qualche avvenimento nodale, più o meno casuale ma infine decisivo, che le rende uniche: come le pagnotte di pane impastate in casa e poi portate al forno rionale, che vi entravano apparentemente tutte uguali, e ne uscivano tutte diverse, riconoscibilmente contrassegnate dal marchio di famiglia. 

Antonio B. segue affettuosamente Leonardo dalla culla fino agli ultimi giorni della sua breve vita: quando precipitosamente il filo del suo destino si spezza. In mezzo si stende l’eldorado della sua infanzia, «quell’età felice in cui la vita, il dovere la colpa non osano ancora a toccarci, in cui possiamo ridere, stupirci, sognare senza il tormento dell’impazienza di coloro che ci amano e che ancora non pretendono indizi e prime prove delle nostre capacità» (p. 11). Ma giunge assai precocemente, per lui come per i suoi coetanei, il passaggio alla vita adulta, insomma la transizione dai banchi delle elementari direttamente all’altra dura disciplina dell’apprendistato, una scuola non più severa di quanto non lo sia stata già la prima. E poi la prima dolorosa separazione della famiglia, per prestare il servizio militare, con le sue prime prove di scrittura, quelle non artificiosamente scolastiche che ti impone la vita, come questa lettera di Leonardo ai suoi familiari del 13 dicembre 1955:

Miei cari per Natale non sono sicuro se vengo, perché se ne va la somma di lire 3500 di viaggio e ci danno solo cinque giorni, se ne vanno due giorni di viaggio e io non lo so come fare voglio un consiglio da voi come dite” (p. 22).

Antonio B. non concede nulla al superfluo, all’aneddotico, al pittoresco, tanto l’ombra della prematura drammatica fine del protagonista del suo racconto si allunga subito, retrospettivamente, sugli anni della sua fanciullezza prima e della giovinezza poi. Unica eccezione, e non come una compiaciuta nota di colore, il ricordo, di passaggio, delle sassaiole, le “guerre”, che al tempo di Leonardo bambino – ma ancora negli anni Cinquanta – contrapponevano fieramente i vari rioni del paese, come in un antico comune medievale: la Villa contro la Chiazza o contro la Serra o contro il Tragliaro, risparmiando solo i rioni periferici di nuova formazione, ancora privi di una riconosciuta identità guerriera, come quello dove io sono cresciuto, via Fontana, ai margini dell’abitato più antico. 

Ma come ho detto, Antonio B. va giù deciso e veloce con la penna, perché quello che più gli preme è raccontare il rapido volgere della vita di Leonardo, cercando di strapparla all’oblio toccato al suo “mastro” pittore, certo Amedeo Auletta: quello che avvia il Nostro al piacere e alla disciplina dell’arte. Decoratore di appartamenti e di mobili (culle, credenze, insegne di negozi…), Auletta arriva a Stigliano non si sa da dove, e da Stigliano ad un certo punto sparisce con la famiglia per andare a Pisticci, a quanto dicono, e aprirvi un bar, forse, anche se qualcuno è pronto a giurare che lui sia morto e seppellito a Stigliano. 

A che scopo questo personaggio, con la sua storia dentro la storia, venga introdotto da Antonio B. nel racconto della vita di Leonardo, anzi della sua vita e morte, non è troppo difficile immaginarlo: forse per consentire allo scrittore di introdurre discretamente nella sua narrazione quella dimensione del Mistero che per lui sempre avvolge o attraversa le vite degli uomini, più o meno vistosamente. Amedeo è uno dei predesignati ad incontrarLo senza veli. Perché, come racconta una cronaca locale di Craco, Amedeo ha visto la Madonna. L’ha vista in sogno. Ed è da lei premiato per averne difeso il suo Santo Nome, quando, nella cappella della Stella di Craco, che lui sta affrescando, per ripararsi da un improvviso scroscio di pioggia, un giorno, irrompe, rumorosamente, un gruppo di allegri cacciatori, fumando e bestemmiando.  È per tali meriti che Amedeo, come per miracolo, può finalmente dipingere quel volto della Vergine cui fino ad allora non gli era riuscito di dare forma e colori. Per un miracolo, che ci crediate o no. 

Leonardo, invece, in faccia ha visto… la Morte, così come suo padre, che non si capaciterà mai della scomparsa del figlio, ha visto in faccia il volto inesorabile di Medusa, che lo ha pietrificato per sempre. Intendo il volto di uno Stato patrigno rimasto indifferente alla tragedia della sua famiglia, che allo Stato ha dato molto più di quel che ne ha ricevuto: un posto di becchino comunale di ruolo, toccato, dopo un lungo noviziato, proprio al capo famiglia Giuseppe. Che, per un destino beffardo, è costretto a «scorticarsi l’anima» (p. 11) per dover proprio lui custodire, nel camposanto, le spoglie del figlio prematuramente mortogli a soli 22 anni, militare di leva, durante un banale incidente automobilistico in caserma: che non verrà mai riconosciuto come dipendente da causa di servizio. Leonardo ci proverà ad ottenere questo riconoscimento dalla burocrazia ministeriale, ma la sua battaglia sarà lunga e inutile, perché la pratica relativa, migrando di scrivania in scrivania, ci metterà non si sa quanti anni per chiudersi come una porta sbattuta in faccia contro il ricorrente. Una battaglia legale che Giuseppe non avrebbe mai intrapreso se l’Esercito Italiano stesso quel suo figliolo morto non gliel’avesse restituito in una bara avvolta dal tricolore, come un caduto in guerra. 

Antonio B. mostra di avere un diretto ricordo del funerale di Leonardo, e di aver seguito, almeno con gli occhi, il mesto corteo giunto quasi in vista del camposanto, confuso fra le donne che, a grappoli, da un’altura alla periferia del paese, salutano la processione dolorosa, stretto alla gonna della sua mamma. Che non aveva acconsentito volentieri ad accompagnarlo a vede’ lo murte (a vedere il morto). Aveva solo sei anni, ma giura di ricordare bene, insieme al dolore scolpito per sempre sul volto di quel padre sfortunato, qualcosa che egli stesso deve ammettere di non aver potuto né vedere né sentire davvero, quel giorno: il tonfo delle palate di terra lanciate sulla bara di Leonardo appena calata nella fossa. Forse perché, di lì a qualche anno, anche a lui la vita mostrerà il suo volto implacabile di Medusa, nascondendogli la madre sotto una zolla di terra o, chissà, dietro una cortina di mattoni, che fa lo stesso perché sempre di terra e di lacrime sono impastati. Un torto della vita toccato, per di più in tenerissima età, anche a mio padre e ad un altro amico mio e di Antonio, Domenico Rienzi: un torto che alla vita né loro né mio padre credo abbiano mai perdonato. Quasi ogni volta che beveva un bicchiere di troppo – aveva il vino triste mio padre – era inevitabile per lui versare ancora una lacrima per quel lutto mai elaborato, come tecnicamente preferiscono dire i medici dell’anima di oggi.

Era, dunque, l’anno 1956. «Quel 1956!» (p. 22). Un anno da dimenticare per gli stiglianesi e non tanto per la memorabile nevicata che aveva isolato il paese dal mondo, lasciandolo per giorni senza pane e senza cibo, quanto per più dolenti ragioni: eventi luttuosi, ma purtroppo anche delittuosi «partoriti dalla follia e dalla disperazione umana» (p. 10). 

Il decesso di Leonardo sembra finalmente chiudere quell’anno disgraziato. O così pare, nel ricordo, ad Antonio B., che quell’anno fa bene a riportarcelo alla memoria, pietosamente immaginando, tuttavia, che con questa tragica morte il Mistero, ovvero il Personaggio principale della storia da lui narrata, torni come a farsi di nuovo invisibile, ritirandosi per così dire dietro le quinte, provvisoriamente si intende, mentre il paese ritorna alla sua sonnacchiosa apparente “normalità”.  

Ma sì, avete capito bene: Antonio B. osa parlare proprio di «colui» che – per dirla con le parole del Sebastiano Vassalli de La Chimera da lui stesso citate – pur apparendoci soltanto come una «eco del nostro vano gridare […] senza esistere ci basta, per non essere venuto viene e ci crea» (p. 32).

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