Storie emiliane dal sapore lucano

Storie emiliane dal sapore lucano di Angelo Colangelo

Raccontando la partenza per gli Stati Uniti del nonno paterno Giuseppe appena sedicenne, con suo padre Giovan Battista e lo zio Santino, Valerio Cervetti nella parte iniziale del romanzo “Novantotto. Un secolo di storie familiari”, (EPIKA, Valsamoggia, 2021) scrive che tutti gli emigranti della provincia di Modena confluivano alla stazione ferroviaria del capoluogo e di là proseguivano per varie destinazioni, affrontando il martirio di viaggi massacranti nelle scomodissime terze classi dei treni di quel tempo. Nel 1905 delle 402 persone emigrate dal territorio di Frassinoro fecero parte i Cervetti.

Storie emiliane dal sapore lucano
Novantotto. Un secolo di storie familiari. Libro di Valerio Cervetti

Da Modena coloro che erano diretti in America, dopo essere stati individuati dagli agenti dell’emigrazione, venivano fatti salire sul treno per Torino. Da qui, con altri emigranti provenienti da tutte le regioni del centronord, erano trasferiti per l’imbarco a Le Havre, importante porto della Normandia. Era, come scrive l’autore, «un viaggio lunghissimo, con treni e vapori lenti, scomodi, dove si parlava poco, per la stanchezza, forse per il timore di aver fatto un passo sbagliato, per la tristezza di ciò che ci si lasciava alle spalle, le persone care, la sicurezza del paese, del campanile, della terra aspra, ma che non tradiva».

Leggendo il lungo e interessante racconto che Valerio Cervetti fa al nipote Manuel, per ricordargli un secolo di storia familiare, che si protrae fino al 1998, ho pensato non senza emozione alla mia esperienza personale. L’emigrazione, oltre ad avere scandito la storia del Sud dell’Italia dall’Unità ad oggi, è stata, infatti, una componente essenziale anche della storia della mia famiglia.

Ben tre fratelli e una sorella della mia nonna paterna Rosa Santo, vale a dire Salvatore, Nicola, Giuseppe e Angela, lasciarono tra il 1906 e il 1919 le aspre montagne lucane, attraversarono l’Oceano, raggiunsero il continente americano e non fecero mai più ritorno al paese. A distanza di oltre un secolo, perciò, Stigliano continua a vivere solo nelle fantasticherie dei figli e dei nipoti americani, che ne hanno sentito parlare dai padri e dai nonni o magari si sono ritrovati tra le mani qualche cartolina dei pochi sconosciuti parenti italiani.

Atto di espatrio V. V. SANTO

Non vi è dubbio che le storie dell’emigrazione verso gli Stati Uniti di milioni di persone, costrette ad abbandonare le loro famiglie, per sottrarle alla miseria più nera, sono storie amare, che accomunano il nord e il sud dell’Italia e non mostrano grandi differenze. A parte il luogo d’imbarco, che per tutto il Sud era rappresentato dal porto di Napoli, medesime erano le ragioni della fuga, le sofferenze del viaggio, l’odissea finale. Dopo essere sbarcati negli Stati Uniti, tutti venivano concentrati nell’isola di Ellis Island e sottoposti a umilianti controlli, prima di ottenere il visto d’ingresso e di sciamare nei vari Stati, dove andavano a svolgere i lavori più duri e pericolosi.

Il nonno dell’autore diventò immediatamente “Giuseppi”, dopo essere sceso dalla nave Hudson, su cui aveva viaggiato con veneti, lombardi, piemontesi, emiliani, «quasi tutti montanari, gente abituata a sopportare le fatiche del lavoro dei campi, in situazioni di povertà accompagnata da una sorta di rassegnazione». Niente affatto diversi, insomma, dai cafoni che si muovevano dalla Campania, dalla Calabria, dall’Abruzzo.

O da quella Basilicata, dove, come sosteneva il grande economista e meridionalista Francesco Saverio Nitti, ai diseredati si offriva un’unica possibilità di scelta: o briganti o emigranti. A tale proposito emblematici sono i dati riguardanti Stigliano, paese di 6934 abitanti nel censimento del 1901, che nel primo decennio del Novecento vide partire 1852 persone. La maggior parte si diresse in America, 1514 negli Stati Uniti, 336 in Argentina e 1 a Rio de Janeiro. Una sola persona emigrò, e non si è mai saputo perché, nell’isola di Corfù.
Valerio Cervetti, come cultore di studi storici intorno alla storia di nonno “Giuseppi”, che molto gli stava a cuore, si è impegnato in pazienti e utili ricerche. Mosso, come tiene a sottolineare, «da quella curiosità appassionata, che ci rende vivi, quando si cercano le ragioni della nostra esistenza, che a volte ci sembra senza scopo», ha consultato anche lo straordinario archivio di Ellis Island. In tal modo ha recuperato preziose informazioni sia dei parenti, che dopo soli due anni fecero ritorno in Italia, sia di chi rimase e morì in America.

Ma, è ovvio, nel suo bel romanzo autobiografico e di formazione Cervetti non parla solo di emigrazione. Attraversando tutto il Novecento, le vicende familiari e personali intersecano gli eventi storici della Grande Guerra, dei gravi problemi che ne seguirono, del fascismo, della seconda guerra mondiale, del ritorno convulso della democrazia, del risorgere lento della vita dopo dolorosi lutti e danni rovinosi, dei “favolosi” anni Sessanta, dei mutamenti politici seguiti alla crisi del comunismo, dell’agonia e della fine della prima repubblica. Si compone, perciò, un vivo e suggestivo quadro della società italiana, che vede in primo piano Parma, di cui amorevolmente si ricordano costumi, abitudini, stili di vita.

Storie emiliane dal sapore lucano
Valerio Cervetti

Interessanti, fra le tante altre, sono le pagine, che l’autore dedica al padre Giovanni e alle vicissitudini che lo tormentarono sempre, ma in modo particolare durante il servizio militare, prestato nei tragici anni della seconda guerra mondiale. Di lui il figlio propone un tenero e affettuoso ritratto, facendone risaltare la delicata umanità, che pur traluceva dal suo carattere schivo e introverso. Anche in questo caso la lettura non poteva non toccarmi, facendomi tornare con la mente alle drammatiche esperienze belliche di mio padre Nicola e alla sua ritrosia nel parlare della guerra. Ma il riserbo fu la nota saliente di tutta la sua vita, infelice sin dall’infanzia, quando a soli cinque anni era rimasto orfano di suo padre Vito, morto il 17 settembre 1917 in una delle tante doline del Carso con altri 230 commilitoni, di cui ben nove lucani.

Com’è naturale, Il racconto di Cervetti diventa a un certo punto autobiografico e scorrono allora rapide le immagini degli anni della fanciullezza, della adolescenza, della giovinezza. Procedono a ritmo incalzante i momenti e i fatti più significativi: la scuola elementare, media e il liceo a Parma, con l’intermezzo di un anno trascorso in una High School degli Stati Uniti, grazie a una borsa di studio; l’università a Bologna, l’ingresso e la militanza nel partito comunista, l’impegno civile e politico, il lungo e intenso lavoro nella direzione delle Biblioteche e degli Archivi Storici, l’attività legata alle passioni dominanti per la storia locale e per il melodramma. E molto altro ancora.

Ma ci fermiamo, perché ci preme piuttosto mettere in evidenza che la narrazione risulta interessante ed empatica, avvalendosi di una scrittura fluida e colloquiale, punteggiata da sapienti pause, da vivaci digressioni, da preziose riflessioni, a testimonianza di una notevole perizia nell’uso della tecnica narrativa. I toni sono sempre sobri e pacati anche nei momenti in cui aggallano più forti le emozioni e il racconto mai si disunisce, pur nei continui mutamenti di scena e nell’avvicendarsi degli attori che di volta in volta sono chiamati a muoversi sul palcoscenico ideale del romanzo.

Non può stupire, dunque, che dopo l’intrigante lettura io esprima la mia gratitudine all’autore, più giovane di me di un anno e mezzo, per avermi fatto rivivere fatti, atmosfere, sensazioni, che mi inducono a una considerazione finale. Voglio dire che, sebbene si siano dipanate a diverse latitudini, avendo io vissuto perlopiù in un paese della montagna lucana e lui in una fascinosa città padana, le nostre vite presentano tante differenze, ma anche sorprendenti analogie. Ed è per questo che Il libro di Valerio Cervetti mi ha molto coinvolto, consentendomi una rigenerante immersione nel mare magno dei ricordi.

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