Piazza Garibaldi racconta

«Non ti capisco. Sì, proprio non ti capisco. Hai deciso di ascoltare tutte. Tutte le hai ascoltate. Ti sei beato dei loro racconti. Spesso ti sei anche emozionato. Me, invece, mi hai sempre trascurata. Ti rendi conto … hai trascurato me che sono la più importante. Come si capisce anche dal nome che porto … Garibaldi … il Capo dei Mille, l’Eroe dei Due Mondi, l’avo lontano di Che Guevara».
Improvvisamente, mi sento investito da una tempesta di parole. La voce ha un tono stizzoso e indispettito. Preso così alla sprovvista, per un po’ resto interdetto. Riesco a liberarmi dall’inaspettata e fastidiosa irruzione della intrusa nell’unico modo possibile. Non replico. Resto ancorato al mio silenzio. Anche se, per un po’, il suo parlare mi ronza fastidioso nella testa come un calabrone.

Riavutomi, con un cenno d’intesa, invito i miei simpatici amici a riprendere la conversazione. Sono alcuni vecchietti che amano conversare nella Piazza. Con loro mi piace intrattenermi. Per ascoltare più che per parlare, perché sono sempre affamato delle loro storie. Storie belle e brutte. Ma storie vere. Storie di vite vissute. Che non possono e non devono essere dimenticate. Anch’essi sono rimasti sorpresi della mia insolita disattenzione. Non mi capita quasi mai di distrarmi. Per questo si erano istintivamente zittiti. Ed erano rimasti in attesa, rispettosi e pazienti.
Per fortuna, però, c’è zio Leonardo. E’ lui che ha la straordinaria capacità di ravvivare la conversazione, quando rischia di spegnersi. Solo lui conosce l’arte di buttare lì ad arte mozziconi di frasi … una battuta, un ricordo, una parola ambigua, stimolante o provocatoria, ma utile a riaccendere il fuoco del discorso, prima che incenerisca. E allora sono vere vampate di racconti scoppiettanti: tristi o ilari, seri o futili, ma sempre intriganti.
Il primo ad abboccare all’amo, abilmente lanciato da zio Leonardo, è zio Antonio. E’ un vecchietto magrissimo, prosciugato dalle fatiche e dagli anni. Ha sempre un’aria seria e malinconica. Una persona dolcissima. E’ lui, ora, il più impaziente di riprendere il discorso interrotto, per riannodare il filo dei suoi ricordi di guerra. Come sempre racconta con convinta partecipazione e interrompe di tanto in tanto le sue frasi con rapidi sospiri. Le brevi pause sono un modo tutto suo per riprendere fiato, riordinare i pensieri e non farsi sopraffare dalla commozione.
Intorno si è rifatto subito un religioso silenzio. Così, torna in scena per l’ennesima volta la guerra. Ed è sempre come se fosse la prima volta.

Proprio vicino alla panchina dove sono ora seduti – ricorda zio Antonio – si fermò un’autocolonna tedesca diretta verso Corleto Perticara, per fare rifornimento presso il distributore di Vincenzo Scotti. Vigilava ancora sulla colonnina della benzina il vecchio corvo Marco, che una decina di anni prima aveva salutato il passaggio del confinato Carlo Levi, mentre veniva trasferito da Grassano ad Aliano.
Di qui partirono i primi gruppi di giovani stiglianesi per la Grande Guerra e, un quarto di secolo dopo, per la seconda guerra mondiale. Due tragedie gigantesche: le famiglie disperate e i giovani scaraventati di colpo in un inferno allucinante. Senza conoscerne le ragioni. Lì, in luoghi lontanissimi, mai visti e mai sentiti neppure nominare, il freddo, le cimici, la vicinanza terribile della morte, che ti vive accanto ogni giorno e ti segue come un’ombra. E tu non riesci a scacciare la paura.

Il racconto di zio Antonio è seguito con rispettosa partecipazione e con muti cenni di assenso dai suoi amici. Molti vissero in prima persona gli orrori della guerra.
Ad un tratto, risuona secca nell’aria una domanda: «Ando’! Sì, va bene, la sporcizia, il freddo, la paura … ma la fame, la fame? Dici niente la fame?». Zio Leonardo, sornione, l’ha buttata là, ben sapendo quale piega prenderà la conversazione. E’ l’unico modo per allontanare, o almeno stemperare, l’atmosfera di cupa tristezza che si è venuta a creare.
«Ah, la fame, la fame! – risponde, sollecito, zio Antonio -. Non mi ci far pensare. Noi che eravamo rimasti per mesi aggrappati con le unghie alla vita ed eravamo riusciti miracolosamente a sfuggire alla morte in combattimento, rischiammo veramente di morire di fame. Eravamo diventati pelle e ossa. Scheletri ambulanti. Ci fu un lungo periodo che, per non sentire i morsi della fame, fummo costretti a mangiare scorze di patate. Niente altro che scorze di patate. Ancora adesso, a distanza di anni, non so spiegarmi come facemmo a sopravvivere. Per giorni e giorni mettemmo a tacere il brontolio continuo dello stomaco mangiando scorze di patate…».
«Pensa un po’ noi – interviene a questo punto, come da copione, zio Giovanni -. Per molti santi giorni, ma che dico, per mesi e mesi, in un posto non molto lontano dal tuo anche noi fummo obbligati a mangiare sempre lo stesso rancio … carne e patate, carne a patate. Non ne potevamo più. Ci eravamo proprio stufati!».
«Ma che dici, Giuà? E’ impossibile. In tempo di guerra … carne e patate a non finire … E dove le prendevate?»
«Ma scusa, Andò, dove le prendevano non lo so. Ma c’erano. Sennò, allora, dove le trovavate voi tante scorze, se noi non mangiavamo le patate? Ti dico che le mangiavamo e mi devi credere. Il giorno e la sera. Poi, il mattino dopo, ci facevano caricare un paio di camion e trasportavamo le bucce al vostro accampamento».
Tutti ridono divertiti. Anche sul viso di zio Antonio si dipinge un timido sorriso. La conversazione, caduta sulle bucce di patate, per un poco si arresta. Ancora quattro chiacchiere, discorsi così, tanto per chiudere quest’altra giornata che Dio ha voluto concedere, e la comitiva lentamente si scioglie. Gli anziani hanno ancora la sana abitudine di andare a letto presto la sera e presto alzarsi al mattino.

Resto solo. Circondato da panchine fortunatamente vuote. Nella strada alle mie spalle solo qualche voce isolata, cui non faccio caso. Ancora non è iniziato, per fortuna, il rumore molesto dello struscio serale. Allora il centro diventa zona esclusiva per i giovani, che si apprestano a vivere le fatiche della vita notturna dopo una lunga giornata di meritato riposo.
Posso, dunque, scorrazzare con i miei pensieri in santa pace. E penso allo strano destino di questa piazza, che è effettivamente importante. Non per il suo nome, come lei ingenuamente pensa e candidamente confessa. Ma perché, avendo vissuto fatti importanti della storia stiglianese, è depositaria di molte memorie del secolo passato.
La sua importanza è dovuta, inoltre, alla sua posizione strategica. Rappresenta per tutti un passaggio obbligato. Anche per chi giunge da fuori. Da Craco, da Pisticci, da Matera. O dai paesi interni per raggiungere l’ospedale. Un crocevia, insomma, su cui la piazza può allungare lo sguardo e osservare tutto ciò che accade. E a lei, che è affetta da morbosa curiosità, nulla sfugge.
Eppure, nonostante la sua centralità, anzi forse proprio per questo, non ha mai avuto una precisa identità e non ha saputo offrire motivi e segni di appartenenza neppure a chi le ha abitato vicino per una vita. Se si chiede di dove sia a chiunque le abiti nei pressi, risponde genericamente di abitare “ndà l’ Chiòn’”. Abitante, cioè, del Piano, non di Piazza Garibaldi. Che, peraltro, è meglio nota con la vaga e anonima indicazione di Piazzetta.

Neanche dal punto di vista urbanistico la Piazzetta ha una sua significativa storia identitaria. Fino agli anni Sessanta fu un ridotto slargo, delimitato, sul lato opposto alla strada principale, da un muro che nascondeva alla vista dei passanti un ammasso curioso di rocce impraticabile per molte ragioni. Non fu difficile indicarlo come il Muro di Berlino, senza che la definizione popolare assumesse mai una implicazione di carattere politico.
Caduto il Muro, essendo sindaco Vincenzo Cacciatore, la Piazzetta diventò uno spazio più ampio e godibile. Molto accogliente per adulti e bambini. Ma la si volle poi rendere anche più vivace e attraente. A qualcuno venne un’idea brillante: popolarla di piccioni. Come piazza San Marco a Venezia. Hai visto mai? Stigliano assimilata alla città della laguna, grazie ai piccioni! Molti condivisero la pensata geniale. Lo stesso sindaco, già artefice di molte e apprezzate iniziative, la fece sua. Furono allora acquistati e fatti venire chissà da dove un centinaio di piccioni. Furono accuditi e nutriti con cura, ogni santo giorno, da un operaio comunale. Ben pasciuti, i piccioni cominciarono presto a fare il loro mestiere di piccioni. Che contemplava anche l’impegno tenace di sporcare dappertutto. A quel punto, non si rivelarono affatto un motivo di attrazione, come si sperava. E sul capo, pur solido, del malcapitato sindaco si addensarono nuvole di imprecazioni e contumelie irriferibili. Succedeva ogni volta che sulle teste indifese e sui vestiti, spesso freschi di bucato, degli ospiti della Piazzetta piovevano gli schizzi sgradevoli dei piccioni incontinenti. Iniziò allora una guerra dichiarata e senza quartiere degli Umani contro i Piccioni. La guerra presto divampò e diventò ineluttabilmente motivo di infuocato scontro politico. Durò qualche anno, ma alla fine vinsero gli Umani.

Stigliano, Fontana piazza Garibaldi
Stigliano, Fontana piazza Garibaldi

Passò l’era Cacciatore. Negli anni Ottanta il sindaco Antonio Calbi volle, a sua volta, rendere la piazza più bella e suggestiva. Sul fondo, fu creato un minuscolo artificioso anfiteatro, con palco e gradinate. Davanti, fu costruita una fontana con lo zampillo, che la sera si illuminava di molti colori. Si ambiva, nel piccolo, a imitare storiche e celebri fontane cittadine. Lo spettacolo durò poco. Con il passare del tempo, purtroppo, la fontana, quando non è rimasta muta del tutto, ha zampillato a singhiozzi. “Clof, clop, cloch / cloffete, / cloppete, / clocchete, / chchch…”. Una fontana malata, come quella della celebre poesia di Aldo Palazzeschi. La Piazzetta, insomma, aveva mutato ancora una volta aspetto, suscitando di nuovo molte e vivaci polemiche. Stavolta tra le due opposte e agguerrite fazioni dei favorevoli e dei contrari alla fontana e all’anfiteatro. E al Sindaco che li aveva voluti.

Mentre così vagabondo con la memoria, fra i miei pensieri s’insinua di nuovo, subdola, una voce. Non più aggressiva come la precedente, ma carezzevole e conciliante. Solo per un momento stento a riconoscerla. Presto, però, intendo che è la voce della Piazzetta, anche se ha mutato completamente tono. Ora è accomodante, direi quasi ruffiana.
«E’ strano – mi dice – che tu non sia voluto rientrare. Sono sorpresa, ma nello stesso tempo contenta, che abbia deciso di fermarti ancora un po’. Vedo che, come spesso ti accade, hai iniziato a navigare nel mare dei ricordi. Se tu volessi, chissà, almeno stasera potrei essere una discreta compagna nella tua navigazione».
Non rispondo. Il mio silenzio è subito interpetrato da lei come un tacito assenso. Astutamente ne approfitta e incomincia a parlare in libertà.

Mons. Vincenzo De Chiara
Mons. Vincenzo De Chiara

«Certo che ne ho vissute di giornate straordinarie – attacca emozionata la Piazzetta -. Esaltante e memorabile fu senz’altro quella dell’agosto 1953. Sotto un sole caldo, che spadroneggiava nel cielo dipinto di un azzurro immacolato, raccolsi e ospitai per molte ore un intero popolo in festa. Anche le pareti della case trasudavano felicità ed orgoglio. Don Vincenzo De Chiara, cinquantenne sacerdote stiglianese, parroco della chiesa di S. Antonio da meno di tre anni, era stato chiamato a dirigere la secolare e prestigiosa diocesi di Mileto. Era la più importante ed estesa della Calabria, con 135 parrocchie e circa 350.000 fedeli. Ne sarebbe rimasto alla guida per oltre venti anni. Nessuno tra la folla dei presenti riusciva a credere che fosse vero … che il figlio di un contadino stiglianese, uno di loro, fosse consacrato vescovo. Tutti erano soddisfatti e fieri: i contadini che mi avevano invasa fin dalle prime ore del mattino; i galantuomini, che mi avevano raggiunta con più comodo e si erano assiepati nei pressi del loro quotidiano rifugio, lo storico bar di Luigi Mazzei. Tra questi ultimi lo sbalordimento era ancora più grande. Nessuno si capacitava che un prete di umili origini potesse essere arrivato così in alto. Forse però, se fosse stato ancora vivo, il più incredulo di tutti sarebbe stato proprio Giovanni, il padre del Vescovo, che molti anni prima aveva accompagnato il piccolo Vincenzo al Seminario di Tricarico a dorso di mulo, la vettura dell’epoca. Ma Giovanni, scomparso l’anno precedente, non ebbe la fortuna di vivere una così grande gioia. Comunque tutti, ripeto, erano sinceramente contenti, perché don Vincenzo era davvero un uomo e un sacerdote fuori dall’ordinario. Soprattutto, stupiva per la sua semplicità, per la sua umiltà, per la sua bontà.

Ma altre giornate memorabili io ho vissuto, legate a fatti religiosi. Voglio ricordarti solo le suggestive e commoventi processioni del Venerdì Santo. Diventavo in quelle occasioni l’anima di una suggestiva sacra rappresentazione, che coinvolgeva una folla enorme di persone. Quelle che abitavano in paese e quelle della campagna. Alcune, confesso, le vedevo solo quel giorno. Il paese diventava un autentico teatro a cielo aperto. Io ero, per così dire, al centro della scena. Si creavano, infatti, due cortei processionali: uno seguiva la Madonna Addolorata, l’altro il Cristo Morto. I due cortei, seguendo itinerari diversi, non s’incrociavano fra loro, se non dopo un lungo girovagare che li portava fino al Calvario. L’incontro, appunto, avveniva qui da me. I sacerdoti e gli uomini incappucciati delle varie confraternite religiose si fermavano. Le due statue venivano collocate l’una vicina all’altra e sovrastavano il mare di gente tutt’intorno, che sciamava fin nelle strade vicine. La Madonna, dopo averlo a lungo cercato, poteva finalmente guardare con tenero sguardo materno il corpo esanime del Figlio. Regnava un silenzio surreale. I fedeli smettevano di recitare le loro giaculatorie. Taceva anche il suono roco e straziante delle “trocole”, le raganelle che, fatte girare incessantemente dai ragazzi, avevano accompagnato la processione. Tutti rimanevano in muta e trepida attesa che da un balcone si affacciasse il predicatore. A lui toccava rievocare alla folla la Passione e la Morte del Figlio di Dio. Sono rimaste ancora vive nella memoria di tanti stiglianesi le edificanti prediche di due dotti barnabiti stiglianesi, padre Antonio Lavaia prima e poi padre Cosimo Vasti. Ne restavano tutti incantati. Ora, purtroppo, il rito del Venerdì Santo, anche se continua a ripetersi ogni anno, pare aver perso gran parte del suo fascino».

I ricordi della Piazzetta mi hanno assorbito del tutto. Mi soffermo un momento sulla sua ultima considerazione. Concordo con lei che il rito del Venerdì Santo ha perso gran parte della sua magia. Cerco di darmi una spiegazione. Le ragioni, penso, potrebbero essere tante. Tutte più o meno vere. La più credibile è che io e la Piazzetta rincorriamo pateticamente, dietro la narrazione di questi eventi, un tempo che non può più tornare.
Penso, allora, che forse è meglio lasciar perdere queste fantasie e cambiare discorso. Sollecito, perciò, la Piazzetta a ricordare altre manifestazioni. Ci pensa un po’. Sono talmente tante – mi dice – che davvero non sa da dove cominciare. Poi, senza farsi pregare, attacca.

Piazza Garibaldi, Manifestazione
Piazza Garibaldi, Manifestazione

«Ti parlerò di alcuni fatti, che tu stesso ricordi, anche se risalgono a quando eri ancora ragazzo. Sorvolo sugli ultimi, quando ho ospitato imponenti manifestazioni pubbliche. Furono vere e proprie sollevazioni popolari, in difesa delle comunità della montagna materana. Dopo l’alluvione del 1973, che aveva messo in ginocchio Stigliano e Cirigliano. Ma anche contro l’installazione di una Centrale Nucleare, così almeno si diceva. O per impedire la chiusura dell’ospedale.
Io vorrei piuttosto fare un passo indietro e accennare brevemente agli anni del dopoguerra. Erano tempi durissimi. C’era una grande miseria, resa ancora più grande dalla guerra. Dilagava la disoccupazione. Artigiani e piccoli commercianti non riuscivano a sopravvivere. I contadini da sempre avevano fame di terra. Improvvisamente sembrò accendersi una luce di speranza con la Riforma Fondiaria. Così chiamavano l’assegnazione agli agricoltori di piccolo lotti di terra dopo l’esproprio di gran parte dei latifondi. Ma quella luce si spense subito e la gente era più disperata di prima. Incombeva la soluzione minacciosa di un antico rimedio: l’emigrazione. Io diventai il contenitore ribollente di un forte disagio sociale, di aspri contrasti politici, ma anche di grande passione civile.

Piazza Garibaldi, Manifestazione
Piazza Garibaldi, Manifestazione

Facevo fatica a contenere la gente, che affollava le adunate da quando era tornata la democrazia. Ai partiti di massa, la Democrazia Cristiana da un lato, dall’altra comunisti e socialisti uniti nel Fronte Popolare, la gente chiedeva di dare soluzione ai drammatici problemi di Stigliano.
I comizi erano infuocati. Arrivavano valenti oratori, anche forestieri, pezzi grossi dei partiti a livello provinciale e addirittura nazionale. Ma gli scontri epici, che molto mi appassionavano, erano fra Francesco Rizzo, socialista, e Salvatore Peragine, democristiano. Il primo si candidava alla carica di Sindaco per il fronte socialcomunista; il secondo alla Provincia per il partito scudocrociato. Entrambi non solo furono eletti ripetutamente, ma lo furono in maniera plebiscitaria. Grazie a ciò, Peragine, che ebbe il grande merito della fondazione del locale ospedale, fu per molti anni Presidente dell’Amministrazione Provinciale.
Un sapore e un valore particolare poi assumevano i comizi di Emilio Colombo, giovane deputato e ministro già ai tempi di De Gasperi. Quando doveva parlare lui, avvertivo una frenesia già molte ore prima del suo arrivo. Innanzi tutto, mi vestivano a festa, prima che arrivasse la gente. Ne arrivava tanta anche dalla campagna, trasportata con pulman e con le stesse macchine dell’Ente Riforma. Non mancavano mai nutrite rappresentanze dei paesi vicini.
Nel giro di qualche ora mi ritrovavo stracolma e invasa da rumori assordanti. Iniziava allora la lunga attesa. Per renderla meno snervante, gli altoparlanti riversavano sulla folla le note gracidanti dell’inno “Biancofiore simbolo d’amore”. Interrotto di tanto in tanto da un effervescente attivista, il quale annunciava che l’onorevole Ministro stava per arrivare.
Se ne seguiva il viaggio come in una fantasiosa radiocronaca, quasi si trattasse del Campionissimo impegnato in una epica tappa del Giro d’Italia. «Colombo è partito da Ferrandina. Si è fermato a salutare gli elettori di Craco. E’ giunto da poco a Santa Maria». E, finalmente, con la voce strozzata dall’emozione, l’improvvisato cronista lanciava l’urlo liberatorio: «Colombo è all’ospedale!». Ne seguiva un applauso fragoroso, con un coro di “evviva”, preceduti però da qualche attimo di smarrimento. Molti avevano pensato al peggio riguardo allo stato di salute dell’illustre ospite.
Arrivava, dunque, il Ministro, accompagnato da nutrita scorta di uomini addetti alla sicurezza, e veniva subito sequestrato dagli uomini più solerti della propaganda. I “galoppini” li chiamavano i loro avversari di sinistra. Sotto la loro protezione fendeva la folla, che salutava con gesti cardinalizi, e raggiungeva la vicina sede della DC, dove lo attendevano i maggiorenti del partito. Consumato il rito doveroso degli ossequiosi saluti e delle immancabili segnalazioni, lo si accompagnava sul palco cui si accedeva dal caratteristico balcone della sezione. Altri cori di “evviva” salivano in cielo, ancor prima che iniziasse a parlare. Finalmente Colombo sciorinava con tono ieratico idee e programmi. Straordinaria era la sua arte retorica, come riconoscevano anche molti avversari, che pure contestavano a lui e al suo partito una politica inadeguata e clientelare».

Segue un lungo silenzio. Temo che la Piazzetta sia caduta in deliquio, evocando con trasporto il personaggio di cui forse si è addirittura infatuata. Decido allora di continuare io stesso, facendo appello a brandelli di ricordi, comunque bastevoli a completare il racconto.
«Non si erano ancora acquietati gli applausi e per aria sventolavano ancora le bandiere bianche con lo scudocrociato, quando parte della folla incominciava a cambiare posizione e a volgersi indietro. Molti puntavano gli occhi verso il balcone di Mariantonia Lasaponara, per capire se ci fosse già qualche movimento sospetto. Come di solito accadeva.
Mariantonia, infatti, era una comunista della prima ora e non aveva paura di mettere a disposizione per i comizi del PCI il balcone della sua casa, che si trovava proprio dirimpetto alla sezione della DC. Ci voleva davvero molto coraggio. Erano tante le donne che, per paura di esporsi, preferivano radunarsi in piccoli gruppi e seguire di nascosto il comizio dai vicoli vicini. Per eccesso di prudenza, volendo evitare di essere riconosciute dai capi della parte avversa, non si sa mai, coprivano i volti con i loro scialli neri. Insomma vedevano e osservavano tutto, senza essere viste.
Trafelato, insieme con pochi compagni, come già altre volte in passato, comparve al balcone Salvatore Calbi, noto Calicchio, da tutti indicato come “Il Pastore”. In pochi attimi la Piazzetta affollata venne inondata dalle note di “Bandiera rossa”, che spazzarono via definitivamente le ultime note del Biancofiore. Chissà da dove, spuntarono, per incanto, tante bandiere rosse con falce e martello.

Stigliano, Anni '50, manifestazione politica
Stigliano, Anni ’50, manifestazione politica

Salvatore, che da tempo era diventato quasi per tradizione il protagonista del contraddittorio con il Ministro Colombo, fin da ragazzo aveva fatto il pastore. Nella dura vita in campagna, prima e durante il fascismo, aveva avvertito subito e poi maturato un forte bisogno di ribellarsi allo sfruttamento, cui erano sottoposti i contadini e i braccianti da parte dei padroni. Trovò nel PCI lo strumento e il sostegno per saziare la sua fame di giustizia. Ben presto a Stigliano ne diventò un leader, conquistandosi il rispetto e l’affetto della povera gente. Anche fuori del suo paese era conosciuto e apprezzato per l’onestà adamantina e la passione civile che ne ispiravano la coraggiosa lotta politica.

Prima che il comizio iniziasse, un ricordo mi balenò nella mente. Ripensai con un brivido di emozione a qualche anno prima, quando, in mia presenza, con un moto di legittimo orgoglio aveva confidato a mio padre che era riuscito da solo a imparare a leggere lo stampato. Poteva finalmente leggere l’Unità, senza l’umiliazione di aspettare che qualcuno gliene riferisse le notizie più importanti.
Da allora si recò puntualmente ad acquistare il giornale da Francesco Giannantonio, noto Saetta, suo vecchio amico e anche lui compagno della prima ora. Ne commentavano spesso gli articoli e sempre si trovavano d’accordo. Anche quando si trattava di smentire alcuni fatti che la propaganda avversa metteva in campo. Con disarmante semplicità dicevano che, se non c’era scritto su l’Unità, evidentemente non era vero.

Anche quella volta il comizio del Pastore fu molto efficace, grazie al suo linguaggio essenziale ed incisivo. Parlò di fatti e problemi concreti, che toccavano drammaticamente la carne viva di tante persone. La disoccupazione, il lavoro sottopagato, l’emigrazione. E dichiarava la sua fiducia che la lotta della sinistra contro le ingiustizie sociali e per il riconoscimento dei diritti elementari avrebbe avuto successo.
“Caro Colombo, – egli concluse – li prenderemo, i padroni, come i topi, senza spostare neppure il comò”. In maniera colorita volle dire che l’esito della lotta non era assolutamente in discussione. I lavoratori avrebbero vinto contro i padroni. Senza colpo ferire».

Emilio Colombo e Salvatore Calbi – mi sorprendo ora a pensare, a distanza di anni – furono due persone del tutto dissimili per esperienza di vita, cultura, ceto sociale, appartenenza politica. Emilio Colombo riuscì a volare alto nel cielo della politica italiana ed europea, come aveva profetizzato, forse a malincuore, il vecchio Francesco Saverio Nitti, che in un primo momento l’aveva con sarcasmo battezzato il “sagrestanello”. Salvatore Calbi, a sua volta, fu buon amministratore al Comune e uomo ammirevole, che Stigliano ha il dovere di non dimenticare. Accostamento azzardato? Non so, né m’importa saperlo. Mi piace immaginare che, su sponde opposte e per strade diverse, perseguirono un traguardo comune. Quel che mi pare certo è che sono due giganti rispetto alle figure lillipuziane che occupano oggi la scena della politica regionale e nazionale.

Stigliano, Piazza Garibaldi, sera
Stigliano, Piazza Garibaldi, sera

Da tali pensieri mi distoglie, di colpo, il forte brusio proveniente dal Corso. Capisco che si è fatto tardi. Mi affretto a tornarmene a casa. La sosta, prolungata oltre ogni previsione, non è stata inutile. Mi sento riconciliato con la Piazzetta e con me stesso.

Angelo Colangelo

Seguici sui social

1,667FansMi piace
92FollowerSegui
1,210IscrittiIscriviti

Leggi anche

Leggi anche ...
Related

Una città da leggere e la vampa dei ricordi

Una città da leggere e la vampa dei ricordi di...

Centro Geriatrico di Matera: inviate le lettere di licenziamento

Centro Geriatrico di Matera: inviate le lettere di licenziamento Vertenza...

Apostoli della carità sulle orme di Francesco

Apostoli della carità sulle orme di Francesco di Angelo Colangelo Nel...

Campanili fra storia, poesia e memoria

Campanili fra storia, poesia e memoria di Angelo Colangelo Con il...