«La Freccia di Mezzanotte» sotto la lente del critico

Il romanzo di Giuseppe Colangelo continua a far discutere. Alle favorevoli considerazioni dei lettori e della stampa si aggiunge ora un lungo saggio dello studioso Benito Urago.

Il risultato è un’analisi puntigliosa che, in virtù di un manierismo elitario, si contrappone all’universo fantasioso e divertente creato dall’autore stiglianese. Una decisa presa di posizione destinata, ne siamo convinti, ad aprire un interessante dibattito.

L’autore di «La Freccia di Mezzanotte» Giuseppe Colangelo

La Freccia di mezzanotte di Giuseppe Colangelo (Edizioni La Vita Felice, Milano 2011. € 12,00) è il nome con il quale si soleva indicare l’autobus che collegava  nel pieno della notte la stazione di Grassano (sulla tratta PZ-TA) a Stigliano, due paesi isolati  sulle alture del materano interno.
Senza dubbio la corsa notturna venne salutata come una iniziativa mirata a sottrarre dall’isolamento ancora perdurante a metà del XX secolo i paesi dell’alta Provincia materana: Stigliano, arrampicata sino a quasi 1000 mt. sul monte Serra,* e Grassano che fugge immediatamente a più respirabile altezza dalla valle dove scorre il fiume Agri, pigro e sonnolento d’estate, a volte rubesto nella stagione delle piogge.
L’isolamento  di questi paesi si era addirittura accentuato dopo la eversione della feudalità quando il territorio rimase parcellizzato in tante comunità condannate a soffrire della difficile situazione economica seguita che nemmeno l’Unità riuscì poi a superare, e destinate a rendere più lungo il capitolo della Questione Meridionale. Significativo è che fu proprio un deputato stiglianese, Nicola Salomone, a tuonare in Parlamento fin dai primi anni del secolo XX contro il governo nazionale per l’incuria  dimostrata verso le terre del Sud!  Su questa via ferrata [completata nella tratta TA/Metaponto nel 1869 e in quella fino a Battipaglia per Pz nel 1880]  corse per decenni un treno istituzionale che toccava la stazione di Grassano appunto a mezzanotte. I collegamenti con  Napoli, il capoluogo del Mezzogiorno, erano stati rari: ancora negli anni del secondo conflitto mondiale, tra il 1940 e il 1945, da Napoli a Taranto arrancava addirittura un convoglio settimanale o sbuffava qualche treno merci sotto la custodia di militari delle forze alleate. I vagoni per passeggeri erano ridotti di numero tanto che molti cittadini, non rinunciando allo scambio in natura o al  commercio di contrabbando per sopravvivere, osavano correre l’avventura del viaggio su carrozze merci scoperte con la complicità non sempre disinteressata dei soldati incaricati della guardia. La concentrazione dei viaggiatori fu drammaticamente segnata dalla tragedia che si verificò nei pressi di Campomaggiore nel percorso in galleria, in cui per l’asfissia causata dai fumi velenosi di carbone  un notevole  numero di spericolati, che erano riusciti a trovare posto o ad arrampicarsi sul tetto delle carrozze   persero la vita. Perciò il nome Freccia nel titolo del libro assume, rispetto al tempo, un tono di comprensibile e amara ironia.

Quanto allo spirito di quell’epoca ormai archiviata è del tutto condivisibile la citazione  tratta da Il Codice dei Samurai di Yamamoto Tsunetomo : “Esso tende a dissolversi; solo qualche residuo si può rievocare attraverso il recupero di alcune espressioni dialettali”. Ben detto. Spiace, però, che nella trascrizione delle parole dialettali in lingua [tradotte in nota] sia stata accordata la preferenza al consonantismo fonetico tutto a scapito del sonantismo vocalico o tuttora presente o evanescente nelle vocali mute, le quale debbono essere segnate, a mio modesto avviso, per alcune intonazioni a fronte del dileguo di altre del tutto percepibili nei suoni liquidi e nelle semivocali. La scelta sarebbe dovuta essere più oculata- cioè- “orecchiata”, per evitare nel lettore non nativo l’impressione di venire ogni volta a contato con una lingua slavizzata e non con una derivata ancora per la più parte da quella classica latina che, insieme alla  greca, possedevano un vocalismo che le rendeva musicalissime e cantabili.
Ricorro a qualche esempio generico. a) pane e focaccia> pane e f’cazz!- lö pône e bast!> il pane e basta! b) vaie e vîne! (in questo caso la muta si deve avvertire come in spinge e trase!> spingi ed entra! Titolo della bella raccolta dei fratelli Sansone e loro collaboratori).
Il consonantismo esasperato rende la parola estranea al dialetto nostro e lo rende impronunziabile o falsato. Si badi alla differenza tra vann hav’tàte e vann avvetàte; un caso limite: nandappaurò è parola unica? – mazzacane diversa da menzacann!  in l’chiòn il lettore non trova il piano; e così in tras’/ Ros’/ fino a b’c’clitt poco decifrabile come  biciclette, anche per uno stiglianese di oggi!
Per questa parte manca la stiglianesità perché [posta l’assoluta improponibilità di ogni alfabeto e di ogni pronunzia dialettale secondo codici linguistici scientificamente riconosciuti!] la pretesa di riuscire ad una soluzione del tutto genuina fa perdere l’essenziale che viene deformato, nonostante l’autore abbia posto alla fine del libro (pp.131/133) un  glossario (sic!) meglio da dirsi una semplice indicazione di grafia e pronunzia, in quanto il glossario si intende come sinonimo di vocabolario, insieme di parole ordinate in colonne suddivise nella pagina (fincature).
Vero è che la scelta del dialetto ha una giustificazione: serve per dare colore a un ambiente e a un personaggio. Si sa che di un defunto o di un mondo “defunto” ciò che si perde è la voce, dote peculiare di ogni persona, elemento sonoro da cui può essere individuata con immediatezza. Lo sapeva il Sommo Poeta che riconosce l’amico Casella non appena comincia a parlare. Tutte le anime dei tre regni oltremondani prendono forma e individualità nel dialogo solo mediante la voce con la quale o si scontrano o si relazionano tra di loro e col poeta e Virgilio o trasmettono la loro angoscia, la pena temporale o la gioia attesa o posseduta. La loro anima non coincide con la figura. Tanto vale anche per le opere letterarie trasportate su pellicola. Per ricorrere a degli esempi di films, di cui Colangelo è esperto conoscitore, posso ricordare La terra trema di Luchino Visconti o L’albero degli zoccoli di Ermanno Olmi che non rifiutano la parlata dialettale.
Perché allora Stigliano non si trova? Voglio dire come entità abitativa, storico-geografica, strutturale ed etica?  E men che meno nella consistenza urbanistica, dettata più dalla Natura che dagli abitanti e solo per qualche  determinazione del benemerito don Biagio Dechiara, sindaco del Comune tra l’ultimo decennio del secolo XIX e il primo del successivo. Il luogo è indicato sin dall’inizio come meta di un viaggio notturno nel romanzo: parola che si è evoluta, ormai intesa come scritto lungo rispetto a un racconto, privo di ogni altra connotazione. Si legge nel IV di copertina: “Un romanzo a tratti esilarante, tessuto tra realtà e fantasia sul filo di una memoria mediata dal cinema e dai fumetti, dai briganti e da New York, che recupera. Grazie alla forza di alcune espressioni dialettali, lo spirito di una piccola comunità lucana degna di essere ricordata”. In queste parole si definisce in maniera concisa ciò che c’è e ciò che manca nel libro . E’ un racconto certamente esilarante per la scrittura rapida e cristallina, che si serve di un lessico appropriato e a volte addirittura ricercato per quanto dotto. Circa la storia, intendo dire  i fatti accaduti, è appena accennata in quelli più noti, ad es. del 1861, allorché  orde di briganti impazzavano per la Basilicata dal melfese  alla provincia di Matera [ un vero  Mezzogiorno di fuoco – per ricorrere ad una mediazione di films di cui l’autore costantemente si serve]. L’esercito dei briganti sconvolsero la nostra provincia soprattutto in una vasta zona dalla marina di Policoro e Metaponto sino alle alture di Stigliano, in attesa del gen.le Borjès,  sotto il comando di Crocco inseguiti dalla Guardia Nazionale alla dipendenze del Cap.no Luigi Franchi di Pisticci.* Nel libro di Colangelo la storia è già diventata leggenda, indotta  con la trascrizione di un brano di  “fumetto” (p.8) riprodotto con la scrittura da giornaletto illustrato da figure, un tempo in bianco e nero.

Il viaggio è quello di un emigrato di ritorno dagli States americani col miraggio di venire in possesso di una possibile eredità. Il fatto sa di paradosso storico: l’emigrato rientra in un luogo da cui si era allontanato in cerca di fortuna!
Siamo negli anni ’70, nel tempo del primo approdo degli astronauti sulla luna, in una memorabile impresa diretta dal Cape Canaveral  dall’oriundo Rocco Petrone che strada ne aveva fatta! Anche l’itinerario del protagonista è diretto là da dove era partito, oltre le la rapida scogliera di Amalfi ed oltre Eboli dove Carlo Levi aveva fatto fermare anche Cristo nel suo libro del 1946: una regione “astrale”, sfuggente, indefinita finanche nel nome duplice di Lucania o di Basilicata (!?),”sorelle o amanti?(!?) – chiosa con efficacia comparativa Colangelo.
Rapida è la scansione dei tempi narrativi che si succedono come tanti fotogrammi in serie a riportare alla memoria persone/personaggi, intravisti appena, non conosciuti nella loro realtà spirituale, nel proprio orizzonte morale e relazionale, condizionato da secolare arretratezza culturale e ristrettezza economica, più presenti come immagini di una realtà virtuale, cinematografica appunto, e anonime come  “il signore coi baffi…che pare uno zingaro”(estraneo dunque anche lui al territorio, secondo la tradizionale accezione del termine) il quale viene atteggiato nei tratti del bandito di turno nei films western.
Lo spaesamento dura nel protagonista che rievoca estranianti esperienze vissute: quella di New York che ancora gli provoca una sgradevole sensazione…la quale sfuma nel desiderio di alleviare l’ansia di rimettere piede nella terra avita, e si trova in uno scalo ferroviario “atopico”…dopo una  lunga porzione di vita consumata all’ombra dei grattacieli…vissuta “tra anime alla deriva” (p.10).
Perciò il viaggio è anche purificatorio; una riconquista di una innocenza senza peccato, appunto perché senza storia. Anche il proprietario terriero incontrato è una figura priva di veri connotati locali, ancorché argutamente descritto: “si assestava bene contro il muro, slacciata la cinghia di cuoio consunto allentava la bottoniera dei pantaloni e, dopo essersi sistemato alla meglio la chincaglieria, arruginita…(11)”: L’osservazione porta lontano dal territorio lasciato e riporta lo scrittore stesso lontano là da dove era venuto, seguendo … immagini che si trovano proprio nei films  o nelle pagine di letteratura di Garcia Lorca o scrittori similari che vi stendono pennellate di colore, di costume, di realtà impalpabili, impresse nella memoria di chi ha conosciuto o ha letto molte pagine di artisti del ‘900, spesso, tragiche e sempre visionarie. L’anonimia ha richiamato anche a me pagine di Vittorini in Conversazione in Sicilia [personaggi anonimi coi baffi…senza baffi!].
Un simile modo di esporre intramezzato di continui riferimenti ad altre produzioni artistiche rendono il testo troppo affollato di rinvii, che certamente testimoniano il notevole bagaglio culturale dell’autore che attinge a un repertorio che non è alla portata di tutti i compaesani e non solo. Tuttavia riesce facile pensare che ognuno dei lettori potrà ricavare impressioni varie in rapporto ad un particolare che lo abbia colpito soggettivamente, a tal punto che il libro sembra scritto per un’élite acculturata che riuscirebbe a utilizzare i numerosi richiami a films, a fumetti, ad autori o artisti eletti da collocare in un orizzonte vasto e internazionale. Chi legge non si trova tra le mani un romanzo nel significato corrente: la tradizione è già lontana più di un secolo quando il collage pittorico delle Avanguardie novecentesche accostavano o sostituivano la narrazione, in parte o in toto, con immagini di figure o di oggetti e finanche con note disegnate dentro e fuori del pentagramma. Da questo movimento innovativo deriva l’ispirazione del Colangelo soprattutto dal versante cinematografico che anche nei primi decenni del secolo XX era intravisto come la nuova arte capace di affiancarsi alla narrativa tradizionale ( anche Pirandello ne fu attratto).
Va tuttavia precisato che il descrivere  o il rappresentare non può sostituire il narrare sic et simpliciter. E questo atteggiamento ha tutto il sapore di una rievocazione lirica, soggettiva a volte onirica addirittura. Tant’è che la forma, controllata minutamente con l’attenzione al lessico e alla struttura del periodo, non consente un facile approccio “popolare”, perché l’ambiente non c’è nelle sue tinte di paese arretrato rispetto al presente. Le persone compaiono e scompaiono in breve momento; si collocano nella pagina come altrettante parcelle di un mosaico, in cui il colore e lo splendore di qualche tassello finisce per attrarre più dello sfondo o del disegno unitario; sicché le notazioni riescono frammentarie oppure occasionali, mentre lo scrittore prende l’aspetto del visitatore che vede e passa oltre. Di passaggio, ad esempio, si ricorda l’esilio culturale del prof. Rocco Montano che pure lui …è andato in America! E’ un accenno per agganci occasionali. Affascina la levità  delle pagine come tanti fotogrammi di una pellicola che scorra troppo velocemente in continue dissolvenze su un tempo passato che non riesce a prendere concretezza rispetto a un presente progredito che manca di rilievo rispetto a quello.
Questa tecnica narrativa contrasta col bisogno di riflettere attentamente per scoprire nelle case la proiezione affettiva delle persone che vi abitano o si raccolgono a consumare  un modesto pranzo o a descrivere una ricetta tradizionale : la velocità sembra impressa nella mente del moderno – straniero fast food. Il movimento viene registrato anche nel caso dell’apparizione di personaggi che dalle rade pellicole proiettate nel cinema locale vengono scoperti  in carne e ossa per le vie del paese a destare legittima meraviglia. Attori e attrici di recente sono stati portati nel materano da registi famosi e hanno destato molta curiosità. Ma sono apparizioni che hanno significato mondi simmetrici anche per i residenti in città pure evolute; nel caso di Stigliano si ricordano solo per il fatto che le loro immagini, soprattutto quelle femminili più procaci, proiettate sullo schermo del cinema della modesta sala del paese erano servite a soddisfare l’esondare del testosterone giovanile con manovre autoerotiche sino a raggiungere l’orgasmo nell’oscurità rotta dai gemiti della soddisfazione.
L’atteggiamento spirituale è determinato dalla stessa formazione culturale dell’autore. Si legga: “Ripensando agli anni d’oro del bar ormai dimenticato, all’improvviso lo vedo rianimarsi” (15). Ma con quali avventori? Sono quelli di Stigliano o delle pellicole viste…in Montagne rocciose, Mezzogiorno di fuoco  etc. o quelli di Sergio Leone …? Insomma siamo in una cineteca mentale popolata di celluloide avvolte in rulli  indisciplinati, inclini a srotolarsi a proprio piacimento. E l’autore conclude “Ho l’impressione  entrare e di uscire da un cinema all’altro”. (p.16).
Il viaggio si consuma tutto nell’interiorità dove si costruisce  una realtà soggettiva con i tratti di una concretezza apparentemente storica; tutta psicologica invece e letteraria in cui i protagonisti si possono rintracciare in un mondo surreale, fantastico, lontano dai fatti e dalle condizioni registrati nella storia i quali restano appena accennati  senza sviluppo e in cui anche i luoghi acquistano dimensioni  evanescenti, indefiniti nonostante abbiano un nome identificato: “ …la voce dell’uomo senza nome, nel frattempo sedutosi su una valigia a pochi passi da me, lo chiamò con una certa decisione: Ehi, paisà! Non è che vai verso San Mauro? No, vado verso Oliveto (?!?)”. Non sono luoghi ma nomi di luogo, privi di  coordinate topografiche.
Solo la memoria torna indietro restituendoci appena dei filamenti di esistenza che si sono prolungati nel presente sotto altre forme. Ma quel mondo reale non può esistere più, come le esistenze dei nostri padri; così come ci ha rammentato lo scrittore  giapponese in apertura del libro. Albino Pierro ha realizzato liricamente  le suggestioni  di un passato remoto nel La terra del ricordo, la sua Tursi (MT.)
Perché allora Stigliano? Per ragioni affettive; per scelte artistiche. Il paese in certo qual modo fa il paio con Aliano di Carlo Levi; ma in senso inverso. Per il Torinese è la discesa all’Inferno del Sud, immobile, arcaico, dove non è arrivata la storia. Cristo si era fermato a Eboli. Ma le vicende del paese ci sono in tutta chiarezza con varie prospettive artistiche e sociologico-politiche ancorché nel sottofondo memoriale. Per Colangelo la risalita “ dal bailamme de l’ sh?ttatéur?” americano per ritrovare l’aria pura del luogo nativo, che non esiste più, è solo sedimentato nella mente e nell’animo di chi scrive. In Levi c’è l’ambiente; ci sono i costumi; c’è la gente contadina viva, che lavora e sull’altra sponda- o marciapiede- passeggiano i signorotti, i Luigini, ignoranti e pretendenti a detenere un potere in apparenza paternamente protettivo. Nel libro del Colangelo la realtà è virtuale che si intende comparare ad un West mentale trasferito dalle vicende  dei secoli passati a quelle stilizzate nei films, in spazi di pura fantasia narrativa [C’era una volta il West; C’era una volta in America; Ombre rosse etcc.].
Stigliano vale bene come esempio per il suo territorio arroccato sull’alto materano, rude, impervio, difficile da raggiungere, allora terra d’esilio interno, controfigura dell’esilio americano iniziato anche da noi alla fine del secolo XIX fortemente ostacolato proprio da un avveduto politico locale, il deputato Nicola Salomone. La condizione o la situazione nel libro di Colangelo è pirandelliana: il personaggio ritorna da una “fortuna migliorata forse” per una “sperata ma incerta in un paese fuori del tempo. La storia e l’ambiente sono diventate virtuali, che si può rammentare con le parole, con le immagini tratte dai fumetti, una sorta di linguaggio figurato immediatamente accessibile anche dal popolo ma superficialmente in quel tempo appena uscito dalla piaga storica dell’analfabetismo e che anche ora  non comporta spiegazioni di pensieri né riflessione critica sugli eventi a favore di un godimento irriflesso  connesso col pericolo incombente di un analfabetismo di ritorno.
In tale mosaico di impressioni adolescenziali non mancano parti affascinanti, come le pagine del II capitolo con le ironiche tinteggiature di una vita vissuta in prima persona dall’autore  con il contorno di parenti ed amici. E’ un insieme corale in cui nessuno acquista un rilievo preminente;  la compagnia si disperde per le vie e le piazzette del paese nel quale il tramestio giornaliero traduce l’affanno quotidiano del tirare a campare di ciascuno gravato da problemi personali e familiari spesso più grandi di loro, accettati e sopportati con rassegnazione e con qualche apertura alla storia esterna che produce meraviglia priva di angoscia, dove l’ansia del rinnovamento viene frustrata dall’incuria dei politicanti di turno che non sanno cogliere il fermento delle nuove iniziative (leggi quella di Schettino e Colangelo) che si lasciano colpevolmente naufragare insieme a qualche istituzione utile alla comunità locale e del circondario (leggi ospedale e scuole)  niente affatto realizzate  in vista di un iniziale  sviluppo materiale e culturale. Si aggiunga che qualche spiraglio di ripresa in tutta la provincia venne spento dall’evento straordinario del terremoto del 1980: il territorio ne fu sconvolto e il paese di Stigliano si ridusse nelle condizioni a cui solo la buona volontà di alcuni cittadini ardimentosi tentano di porre un certo rimedio, affinché un luogo così ricco di storia  rimanga fra non molto tempo nella lista dei paesi fantasma destinati a scomparire finanche dalla carta topografica nell’avvenire ormai prossimo. Nel libro anche questo tragico evento resta come una semplice notizia, utile tuttavia per rammentare una comunità che non si rassegna al declino o alla scomparsa del paese amato..

La penna del Colangelo non fa una pausa ma fila dritto a rincorrere altre figure, altri personaggi di minute vicende proprie dell’avventurismo di tutti gli adolescenti sia nella scuola elementare che in quelle superiori appena istituite. Prevale il desiderio dell’evasione verso l’“altrove”, simboleggiato da qualche gita collettiva verso il mare di Metaponto, il luogo che non parla di Pitagora o della Magna Grecia né suscita la curiosità  verso  i ruderi  bensì verso lo spettacolo provocato degli inesperti paesani divenuti bagnanti distratti e meno preoccupati di salvare la pudicizia al di sotto delle mutande bagnate.
Sono descrizioni simpatiche di frammentate esperienze; manca la vera storia perché la rievocazione si muove costantemente a ricordare giochi tra compagni di scuola e partite di calcio o sfide rionali, con le quali il Regime fascista distraeva il popolo dei balilla, dei figli della lupa e l’avanguardismo giovanile.
Questo è uno dei limiti del libro, cioè la cumulatio, ovvero l’affastellamento delle rievocazioni che si sovrappongono o sostituiscono di continuo mettendo in evidenza l’abilità scrittoria dell’autore-regista che scrive all’interno un breve copione e muove la macchina da presa in campo lungo o in campo corto per un film, ma non un documentario critico. Questo aspetto, tuttavia, può rendere ragione della predilezione dei lettori che troveranno coerenza tra la premessa e l’esecuzione dell’opera, che riesce abilmente collocata in una zona memoriale che non è storia, perciò situabile in una sfera di pura fantasia elaborata su una realtà non recuperabile se non per quel tanto di spirito che si riesce a far emergere a distanza di decenni. Può essere accostato a qualche pellicola del neorealismo degli anni postbellici ma privo della problematicità dei primi, piuttosto a qualcuno degli ultimi che consumano la loro forza rappresentativa nell’ambito di uno psicologismo divenuto di maniera. Nel libro possono ritrovarsi di più i compagni di allora che i cittadini di oggi. Sicché si ha l’impressione di un viaggio iniziato ma mai finito e che la Freccia di Mezzanotte non sia arrivata davvero alla meta; a un paese vivo e concreto, geograficamente e storicamente caratterizzato nella sua etnografia, nella sua religiosità. Quest’ultima manca del tutto: ché anch’essa tra il 1940 e il 1960 stava subendo una notevole evoluzione sia per la sopravvenuta laicità dei costumi che per la scarsezza delle vocazioni, quelle che un tempo avevano avviato al sacerdozio una ventina di giovani ancorché con molte defezioni lungo il cammino. Ancora oggi si indica una curva sulla strada per Craco come curva dei preti o dei pretini (priw’tàcchi?!). La loro diminuzione  e la successiva scomparsa causò un notevole impoverimento nel rito e nella musica religiosa a favore di quella richiesta per le feste civili e soprattutto nei matrimoni allietati da  complessi musicali di giovani, che riuscivano nella riproposta di melodie e di ritmi di cantautori consacrati nei festivals che dilagavano per le regioni e per il territorio nazionale.
Questi stessi, oggi adulti, si possono ritrovare nelle ricordanza del loro amico  divenuto scrittore ed esperto di produzione cinematografica dopo strenue difficoltà sostenute sotto vari cieli e volte ad una meta precisa, voluta e raggiunta con volitivo impegno.
Il compiacimento coglie anche l’estensore di questa nota che fu uno dei primi, negli anni ’80, a prevedere nel giovane Colangelo le premesse  sicure della futura maturazione culturale dello scrittore e critico di oggi.

Note

*[Pochi secoli addietro sede di un potente principato, territorio ambito per la sua estensione finanche dal Vicerè spagnolo Don Ramiro di Guzman che ne divenne titolare per matrimonio contratto con Donn’Anna Carafa, unica erede dell’antica famiglia nobiliare infeudata nel principato]

* [cfr. Corrispondenza del Cap.no Luigi Franchi col Sottoprefetto di Matera, pubblicato a cura E. Salomone e B. Urago]

Prof. Benito Urago

La Freccia di Mezzanotte

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