La “Villa” racconta

Come ben sanno tutti gli stiglianesi, la Villa comprende sostanzialmente due piazze. Da una parte è Piazza Marconi, cui si accede, venendo dal Corso, dallo storico Appìtt d’ Campanàr’. La salita prende il nome dalle numerose e rinomate botteghe artigiane, da tempo scomparse, in cui si costruivano meravigliose campane. Piazza Marconi, nel complesso, si è conservata bene negli anni con la sua bella Cappella della Nunziata, meglio nota poi come Cappella dei Sacri Cuori, o semplicemente Cappella, che ne occupa un intero lato.
Ad angolo, separato solo da un angusto vicoletto, affacciato sull’antica Loggia del Castello e su palazzo Rasole, che vide nascere il grande padre barnabita Vincenzo Cilento, è l’asilo infantile “Felice Di Persia”, che fino a pochi anni fa allevò alcune generazioni di bambini.
Di fronte al muro laterale della Cappella, è un palazzo, ora disabitato e fatiscente, che appartenne a una ricca famiglia di possidenti che, si racconta, dové la sua fortuna al ritrovamento casuale di una enorme anfora stracolma di monete d’oro in un campo evidentemente frequentato, a suo tempo, dai briganti. Di seguito, oltre il pubblico fontanile, una graziosa costruzione, che per trent’anni fu un piccolo albergo molto frequentato da insegnanti e rappresentanti di commercio provenienti da ogni dove.
Il quarto lato della Piazza è aperto e consente di allungare lo sguardo, oltre la vicina verde foresta, fino alla superba catena appenninica, che si staglia maestosa all’orizzonte con al centro il venerato monte della Madonna di Viggiano.

Attraverso Largo Masaniello, che fa quasi da anello di congiunzione, si accede in Villa Marina, fino ai primi anni Sessanta un vasto spazio aperto, oggi irrimediabilmente deturpato dalla installazione di un’orrenda cabina telefonica e di una privata abitazione. Due escrescenze mostruose, che ne hanno stravolto l’aspetto estetico e ne hanno soffocato l’empito liberatore.

sigliano, il rione Villa Marina
Nonostante l’imperdonabile scempio, grazie alla notevole altitudine e alla invidiabile posizione prospettica, la piazza lascia ancora spaziare lo sguardo fino al lontano mare di Taranto e permette di godere uno spettacolo impareggiabile: la montagna, che tende idealmente la mano al mare in una simbiosi perfetta. Di qui forse anche il suo nome, Villa Marina, insolito per un paese che se ne sta perlopiù adagiato sulle pendici del monte Serra, a circa mille metri di altezza, in modo sempre più malfermo e tremebondo.
In senso più ampio la Villa comprende anche alcuni rioni limitrofi. Da un lato le case sotto il vecchio Castello, ormai diruto, che fanno da corona al palazzo dei baroni Formica; dall’altro il suggestivo Carvutto, un pugno di misere abitazioni acrobaticamente sospese su enormi e suggestivi massi rocciosi. Sono le estreme propaggini delle due piazze e le loro vigili sentinelle. In particolare il Carvutto, che fu considerato anche il parente proletario della piccolo-borghese Villa. In una zona neutra, tra il Piano e la Villa, è via Fratelli Bandiera, che dall’antica Farmacia Forastiere, nel centro del paese, si arrampica baldanzosa fino allo storico negozio di Nicola Colangelo, cuore pulsante dell’intero quartiere fino alla fine degli anni Settanta.

Stasera, prima di rientrare a casa, sono passato a salutare la Villa. Lo faccio quasi quotidianamente nei periodi di permanenza a Stigliano, brevi o lunghi che siano. Ed ogni volta mi aggredisce una ressa di persone e di fatti, che hanno segnato la storia di un rione popoloso e ricco di vita e che reclamano di poter rivivere. Almeno nei ricordi.
Ripenso, perciò, ai giochi infuocati di torme di ragazzini sfrenati, alle risse furiose presso la fontana per presunti diritti di precedenza non rispettati, ai richiami delle donne che, senza uscire di casa, si danno la voce mentre attendono alle faccende domestiche, al laborioso affaccendarsi nelle loro botteghe dei numerosi artigiani e commercianti. Una Villa piena di vita, dall’alba fino a sera.
Rivivo anche, di tanto in tanto, la scena, più volte raccontatami fin da quando ero ragazzo da uno dei due protagonisti, dell’annuncio inaspettato della fine del regime fascista. Il signor B., generoso dispensatore di olio di ricino ai compaesani antifascisti, fu il primo a rompere il silenzio all’alba del 26 luglio 1943 con grida esagitate. E, senza pudore, urlò all’allibito professore dirimpettaio, scappato da Firenze per mettere al sicuro la famiglia dai pericoli della guerra e delle rappresaglie nazifasciste: “Compare, compare … è finita, è finita, è veramente finita! Il fascismo è caduto! Ci siamo finalmente liberati di questa schifosa dittatura”. Il severo e integerrimo professore di un prestigioso liceo fiorentino preferì non controbattere al meschino voltagabbana, ma chiuse le imposte e, sdegnato, si ritirò in casa.

L’amore fra me e la Villa è un amore antico e profondo. Si potrebbe anche dire un amore incestuoso, perché la Villa per me è stata, come Giocasta per Edipo, madre e sposa. Insomma, un rapporto patologico e indistruttibile tra me e il luogo, che mi ha visto nascere e crescere. Lei mi ha vezzeggiato per circa trent’anni. Io l’ho portata amorevolmente con me dappertutto, ovunque sia andato, per circa quarant’anni.
Stasera, però, avverto sensazioni mai prima provate. Per la prima volta mi pare che lei abbia verso di me un atteggiamento meno caloroso, se non proprio irritato. Mi pare immusonita. Per qualche momento penso che la mia sia una impressione fallace, generata dagli umori instabili della solitudine e di un’estate balorda. Provo allora a rassicurarmi, dicendomi che le mie sono solo fisime, perché non possono le piazze provare i sentimenti degli Umani. In particolare, non possono essere risentite o gelose o invidiose come, spesso stupidamente, capita agli Umani.
Con tali pensieri, che mi ronzano fastidiosamente nella mente, gironzolo per un bel po’, freneticamente, dal Carvutto all’asilo. Mi decido poi a sedermi finalmente sulla panchina davanti al sagrato della Cappella e rimango in attesa.
Passa solo qualche minuto e, insinuandosi tra il fogliame dei due pioppi secolari, mi raggiunge una voce alterata dal broncio. … Ma allora non mi sbagliavo? …Anche le piazze, dunque, hanno un cuore e sentono sentimenti umani? Seppure strozzata, non faccio però fatica a riconoscerla, questa voce. E’ per me inconfondibile. E’ la voce della Villa, che si rivolge a me con tono di amabile rimprovero. Confessa di essere un po’ indispettita. Si sente tradita, perché mi sono fatto attrarre e distrarre da un’altra piazza. Provo a giustificarmi, spiegando che l’interesse per le storie raccontatemi qualche sera fa da piazza Monumento non inficia per nulla il nostro rapporto.
«Insomma, convinciti – le dico, solenne, per tranquillizzarla -. Per me tu sei sempre la Villa ed occupi un posto dominante nella geografia della mia anima. T’invito, pertanto, a non fare la scontrosa e a riprendere i nostri amabili colloqui di sempre. Ti prego, anzi, di raccontarmi la storia di quell’asilo che mi fissa in questo momento negli occhi, sprizzando scintille di ricordi indistruttibili».
La Piazza, per qualche tempo indicata semplicemente come Largo Marconi e prima ancora come Largo Plebiscito, ormai sa leggere come nessuno nei miei pensieri. Rabbonita del tutto, mi asseconda, perché la sua voglia di raccontare è almeno pari al mio desiderio di ascoltarla. E’ concentrata e ispirata. Evidentemente non vuol essere da meno della sua rivale. Ma esordisce con tono che vuol essere un po’ provocatorio.
«Si vede che stai proprio invecchiando, mio caro. Sei diventato ormai un bulimico divoratore di ricordi dell’infanzia. Un sentimentale inguaribile. Ma perché ti piace così tanto inseguire con la memoria quei tempi lontani? A cosa ti serve rincorrere l’immagine del bimbetto riottoso che, con un candido grembiulino e il fiocchetto azzurro, stringeva con dispetto nella mano il cestino azzurro contenente le posate e il tovagliolo? E che percorreva, spesso piagnucolando, con l’inseparabile cugino-fratello Giovan Battista i pochi metri che lo separavano dalle mai dimenticate suor Pia e suor Renata? Certo non poteva essere causa del vostro pianto solo l’odio per l’odore nauseante del latte che una suora attingeva da un enorme calderone e vi serviva a colazione in scrostate tazze di alluminio».

Stigliano, inaugurazione dell'asilo Felice Dipersia
Non rispondo. Rimugino solo tra me e me pensieri confusi che, chissà perché, quando sono alla Villa, mi aggrediscono in maniera quasi violenta. Procurandomi dolori lancinanti ed ebbrezze ineffabili. Lei intende rispettare il mio chiuso silenzio, ma infine capisce che forse è meglio non indugiare oltre. Cerca così di distrarmi avviando il racconto della storia che le ho chiesto.
«L’asilo – dice – nacque per volontà di mons. Raffaele Delle Nocche, il Vescovo che guidò la diocesi di Tricarico per ben trentotto anni, dal 1922 al 1960, anno della sua morte. Appena giunto in Lucania o, come tu preferisci dire, in Lucania-Basilicata, si rese presto conto delle difficili condizioni di questi paesi, tormentati dalla miseria e dall’analfabetismo. Era una terra che aveva bisogno urgente di un serio programma non solo di evangelizzazione, ma di promozione sociale. Ritenne doveroso, perciò, rimboccarsi subito le maniche e già l’anno dopo il suo arrivo pensò di istituire una Congregazione religiosa, che fu chiamata, per scelta di papa Pio XI, Suore Discepole di Gesù Eucaristico. Con l’aiuto di Linda Maria Machina, che da lui era stata invitata a venire dalla provincia di Napoli e che diventerà poi Madre Generale, incominciano a nascere la prime Case in vari paesi dentro e fuori la diocesi tricaricese. Dovevano provvedere alla cura dei bambini e alla educazione delle fanciulle con la creazione di asili per l’infanzia, ma anche di scuole-laboratori di cucito e ricamo. Monsignor Delle Nocche teneva, in particolare, a una presenza delle Suore a Stigliano, anche perché in questo popoloso paese della montagna materana si temeva una rapida diffusione di movimenti devianti dopo il recente insediamento di un Pastore protestante. Il problema, però, era la mancanza di fondi per avviare l’opera. Fu allora che in soccorso del Vescovo giunse la Provvidenza, che prese le sembianze di un prete arrivato dagli Stati Uniti di America in occasione del Giubileo del 1925.
Si chiamava Felice Di Persia. Figlio d Luigi e di Caterina Sampogna, era nato a Stigliano il 1° febbraio 1871. Ordinato sacerdote nel 1896, si trasferì presto in America, dove il vescovo di Newark gli affidò l’incarico di fondare una chiesa per gli italiani di Hoboken. Fu nominato poi parroco della colonia italiana di Patterson, una città pullulante di atei e di anarchici. Da lì, non a caso, era salpato per l’Italia Gaetano Bresci, dopoché fu deciso l’assassinio di re Umberto I. Don Felice molto si adoprò per la elevazione civile e morale della nuova comunità. Divenne in seguito parroco della Chiesa del Rosario in Jersey City, dove ebbe tra i suoi collaboratori don Giuseppe De Sanctis, un altro prete stiglianese, Qui provvide subito al restauro della chiesa e alla fondazione di un asilo infantile, che fu considerato ben presto uno dei più belli e funzionali di tutto il New Jersey, grazie anche all’attività dell’Associazione Figlie di Maria e del Rosario. Ma decisivo per l’educazione dell’infanzia si rivelò il ruolo delle Congregazioni di San Luigi e delle Piccole Adoratrici, cui il dinamico parroco stiglianese aveva dato vita e che si presero cura rispettivamente dei bambini e delle bambine con competenza ed amore.

Tornato provvisoriamente a Stigliano, Don Felice non esitò a condividere il programma del Vescovo delle Nocche, provvedendo a donare prima la somma di centomila lire e poi ad acquistare la casa destinata all’asilo che avrebbe portato il suo nome. Ne seguì dall’America l’attività con amorevole premura e nel suo testamento olografo del 1937 obbligò addirittura due nipoti, da lui beneficati, a fornire alle Suore 50 some di legna da fuoco all’anno per dieci anni dopo la sua morte. Che avvenne il 24 novembre 1940».

Dopo la pacata e interessante narrazione della Piazza rimango assorto in vaghi pensieri. E, fissando le finestre dell’asilo, in un breve ed emozionante flashback rivedo aggirarsi solerti nelle grandi stanze a me familiari tante suore vestite di nero fino alle caviglie, nero il velo a mezza spalla, bianco solo il collettino. La Madre Superiora, suor Pia, suor Renata, suor Eufrasia, suor Innocenza, suor Cesira mi appaiono ora come tante rondini volteggianti leggere nell’aria e animate da un forte spirito di fede.

Quella grande e bella struttura, che risuonò per decenni delle grida stridule e gioiose di centinaia di bimbi e che per anni ospitò molte ragazze provenienti dai paesi vicini per frequentare le scuole medie e superiori, ora è immersa in un silenzio tombale. L’asilo, penso, è la metafora del destino di Stigliano. Un paese vitale e ammirato da tutti per lungo tempo e ora avviato a un triste declino, che sembra irreversibile.

Lo squarcio orribile, provocato alle spalle dell’asilo dal recente abbattimento degli ultimi ruderi dell’antico Castello, è la prova visibile e tragica di un paese che negli anni ha perso continuamente pezzi e che ora, divorato da frane rovinose, deve temere per la sua stessa sopravvivenza.

La Piazza non fa fatica a leggere i tristi pensieri che mi attraversano la mente e il forte turbamento che il suo racconto ha suscitato. Amorevolmente, perciò, mi viene in soccorso e mi sussurra il suo proposito, se sono d’accordo, di raccontarmi brevemente la storia dell’antico Castello. Non sono molto convinto, ma mi sembra irrispettoso rifiutare e mi dispongo, perciò, ad ascoltare un’altra storia interessante. Così la mia Piazza riprende a narrare, con la generosa intenzione di aiutarmi a scacciare i miei tristi fantasmi.

stigliano, l'antico Castello di Villa Marina

«Il Castello fu fatto costruire dalla potente famiglia Colonna oltre sei secoli fa su una murgia rocciosa. Una compra manoscritta del 1697 ne offre una descrizione particolareggiata con la puntuale indicazione di archi, porte, scale, cunicoli, stanze. Si parla anche di una sala dove è “uno sportello con cancello a calatore, dal quale si scende in una stanza buia che serve per carcere criminale”.

Nel pomeriggio del 31 ottobre 1936 con una solenne cerimonia alla presenza del Prefetto, come ricorda la Gazzetta del Mezzogiorno dell’epoca, fu celebrato il restauro realizzato dal Governo per riportare all’antico splendore il torrione che era considerato di inestimabile valore storico. Solo sei anni dopo, però, per motivi di sicurezza si rese necessario demolirlo e mettere in sicurezza la rupe con lavori che furono eseguiti dall’Impresa Andrea Sampogna».

Il racconto si è esaurito e io penso anche allo splendido e imponente orologio che per molti anni servì a scandire le giornate dell’antico borgo e inondò con i suoi rintocchi le campagne circostanti. Resto per un po’ immobile sulla panchina in compagnia di tanti ricordi. Lentamente poi mi alzo e riprendo a girovagare, godendo il profumo della frizzante e inimitabile aria della Villa.
Mi tornano in mente le parole del vecchio zio Michele, che nelle frequenti soste al fresco della Cappella spesso amava confidarmi i suoi pensieri. Un giorno mi disse con la solita arguzia, che rendeva affascinante il suo parlare: «Vedi, figlio, mio, io ho ormai novant’anni e so che la Madama è in arrivo. Ma ti confesso che non ho paura di lei. La morte alla mia età non può far paura. Però, mi dispiace morire per un solo motivo … perché, morendo, sono costretto a lasciare la Villa».

Angelo Colangelo

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