La via dei preti … ma non solo

Allungandosi come una biscia, unisce il Centro alla parte antica del paese. Partendo dalle spalle del Monumento ai Caduti, si distende fra due ali di case disposte in ampia semicurva e all’estremità opposta si biforca in due segmenti, che conducono, scendendo a sinistra, verso il Casale e, salendo a destra, verso la Chiazza.
E’ la strada che porta il nome del primo re d’Italia, Vittorio Emanuele II. Con le altre, che ricordano i Fratelli Bandiera, il Conte di Cavour, Giuseppe Garibaldi, Ciro Menotti, ma anche il Plebiscito e le battaglie di Magenta e di Solferino, è una delle strade o piazze, con cui Stigliano intese commemorare la nostra storia risorgimentale.
Ma, a proposito di toponomastica stiglianese, da tempo un pensiero continua ad assillarmi: perché manca una strada o una piazza che porti il nome di Giuseppe Mazzini? Il rovello si trasforma perfino in rabbia, se penso che qualcuno, a suo tempo, volle intitolare quella che oggi è la strada principale del paese al famigerato Enrico Cialdini. Forse la risposta al mio interrogativo va ricercata nei sentimenti decisamente filomonarchici della piccola borghesia stiglianese nel periodo postunitario. Non può essere casuale, infatti, che esistano anche una via Principe di Napoli e Corso Umberto I. Per questo, concludo che a suo tempo si volle essere più realisti del re e che volutamente fu adottata una sorta di ostracismo nei riguardi di Mazzini, tormentato e fervido sostenitore delle idee repubblicane. Nello stesso tempo mi chiedo: la condanna all’oblio del grande Genovese non fu forse dovuta anche a un sentimento, magari inconscio, di rigetto del magistero di un uomo che amava ricordare agli Italiani l’importanza dei doveri nella edificazione del progresso morale e civile della nazione?

Ma è il momento di porre termine alle mie anacronistiche elucubrazioni e di precisare che la tradizione popolare al nome del primo re d’Italia ha preferito, sempre e comunque, il nome di Trogghiàrë, legato forse alla vita dei contadini, che per secoli nei nostri paesi furono gli anonimi attori della microstoria locale. Il nome, perciò, sarebbe dovuto al fatto che la strada da tempi remoti era utilizzata, dopo la mietitura, per tragghiàre, cioè trasportare, i covoni di grano presso una piccola trebbia sistemata nella vicina aia di Sant’Antonio. E’ bello immaginare che talvolta la memoria collettiva riesca a prevalere su decisioni e provvedimenti della ristretta classe dominante.

Se tutti usano da sempre il termine Trogghiàrë, per indicare anche l’intero rione con i molti vicoli che si diramano disordinatamente da entrambi i lati della strada principale, pochi sanno, invece, che Corso Vittorio Emanuele è stata anche chiamata da qualcuno “la via dei Preti”. Non si sa da chi e quando le fu attribuito tale nome. Ma se ne può facilmente arguire il motivo, se si considera che qui, nel raggio di poche decine di metri, è nato e ha vissuto nel secolo passato un grande numero di esponenti del ragguardevole clero stiglianese.
Partendo dalla estremità superiore della strada, ci s’imbatte nella figura dell’arciprete don Rocco Longo, parroco della Chiesa Madre per alcuni decenni, che abitava in una bella casa sovrastante l’ex piazzetta della Cavallerizza. Siamo, per così dire, nell’anticamera di Corso Vittorio Emanuele. Don Rocco assolse nella diocesi a funzioni ispettive molto delicate. Ricoprì, infatti, l’incarico ufficiale di informatore diretto del Vescovo Raffaello Delle Nocche, al quale faceva pervenire relazioni riservate sullo stato delle parrocchie e su eventuali comportamenti censurabili dei sacerdoti, che allora erano particolarmente numerosi.
Probabilmente lo stesso don Rocco è uno dei due preti stiglianesi menzionati da Carlo Levi nel famoso libro Cristo si è fermato a Eboli. Chiamati dal nuovo parroco di Aliano don Pietro Liguari, successore del buon don Trajella, vi si erano recati per concelebrare in occasione dei funerali di un vecchietto appartenente alla antica famiglia dei Poerio, una delle più importanti del paese. All’illustre confinato torinese, ospite anch’egli quel giorno di don Liguari, toccò di pranzare con questi “tre strani uccelli”, che si lagnavano, di continuo e senza ritegno, che morissero pochi signori e troppi contadini. E la doglianza non era certamente dovuta a spirito di carità per gli umili, ma al fatto che i contadini erano poveri e quindi i preti dovevano accontentarsi di celebrare funerali troppo economici per gran parte dell’anno.
Proprio all’ingresso di Corso Vittorio Emanuele abitò don Vincenzo Alderisio, che fu cappellano dei Sacri Cuori e presso l’Ospedale Civile, nonché alacre parroco di campagna. Non si sa se a questi diversi incarichi, o ad altro sia dovuta la sua abitudine di dire messa a velocità supersonica, per cui acquistò meritata fama. Don Vincenzo, in ogni caso, nel celebrare guadagnava tempo e si faceva poi carico con molto ma molto “interesse” della cura delle anime. Con eguale “interesse” provvide per oltre mezzo secolo ad annunciare la Parola, sostenendo con tenacia, fino agli ultimi giorni della sua terrena esistenza, la diffusione capillare del settimanale cattolico “Famiglia Cristiana”.
Quasi dirimpettaio di don Vincenzo Alderisio era don Nicola De Lucia, un sacerdote di contagiosa simpatia, che, nella sua brevissima vita, fu apprezzato docente di lettere presso i Seminari di Potenza e di Salerno. Nella città campana morì improvvisamente, una notte di maggio del 1957, all’età di soli trentotto anni. Non riuscì a salvarsi da un male subdolo lui che, qualche anno prima, era riuscito nell’impresa disperata di salvare il fratello Antonio, condannato a morte dai Tedeschi mentre era internato nel campo di concentramento di Fossoli. Per intenderci, il campo da cui transitò, fra i tanti sventurati, Primo Levi.
Negli stessi Seminari di Potenza e Salerno insegnò anche don Mimì Chirico, un prete più giovane di don Nicola, che era anche suo vicino di casa. Fu poi docente di lettere nelle scuole statali a Napoli, dove operò per molti anni, guadagnandosi la stima di alunni e parrocchiani. Don Mimì da poco ha superato i novant’anni ed è ora ospite del Collegio Barnabitico “San Luigi” di Bologna, dove è ancora attivo il suo amato confratello padre Giuseppe Montesano.
Superate, sulla destra, le abitazioni di Monsignor Vincenzo De Chiara e di don Rocco Rizzo, si arriva a quelle di due altri sacerdoti stiglianesi, che videro la luce e abitarono nella “strada dei preti”: padre Carmine Fornabaio, familiarmente chiamato da parenti e amici “Carmënìdd”, e don Giacomo Polidoro.

Stigliano, il tragghiaro con don Giacomo Polidoro che vi abitava
Stigliano, il tragghiaro con don Giacomo Polidoro che vi abitava

Il primo, oggi quasi novantenne, fa parte della Congregazione dei Fratelli di san Francesco Saverio ed è tuttora missionario in Giappone, dove raggiunse ben presto i primi Saveriani, che vi erano arrivati nel 1946.
Il secondo fu viceparroco di don Vincenzo De Chiara e, dopo la nomina di quest’ultimo a Vescovo di Mileto, divenne parroco della Chiesa di Sant’Antonio, che guidò con sapienza fino alla morte, giunta prematura nel 1972, all’età di appena quarantacinque anni. Morì a Padova in seguito ad un delicato quanto disperato intervento chirurgico, reso necessario da una improvvisa e grave emorragia cerebrale. Socievole, intelligente, dotato di una solida preparazione culturale e teologica, Don Giacomo fu molto apprezzato dai fedeli, dai confratelli e dai superiori, anche se qualcuno non volle risparmiargli critiche per la ristrutturazione del Convento, avvenuta alla fine degli anni Cinquanta e ritenuta discutibile, se non addirittura improvvida.

Mi piace percorrere corso Vittorio Emanuele. Mi rasserena e mi consente di naufragare nel mare grande della memoria Per questo, anziché prendere la via più breve, spesso scelgo di compiere una sorta di circumnavigazione, quando quotidianamente mi dirigo al porto sicuro e fidato della Villa.
La strada, molto stretta e insidiosa per la presenza eccessiva di auto in sosta o in transito, mi obbliga a procedere lentamente e mi consente di vagabondare fra i ricordi. Oggi, in un bel pomeriggio solatio, è, come sempre, intasata di macchine e deserta di persone. Ho l’impressione di essere del tutto solo. Solo a tratti percepisco una voce ovattata o intercetto uno sguardo furtivo, che mi raggiungono d’improvviso da qualche porta socchiusa. Cammino, dunque, in balia dei miei pensieri, che soli mi tengono compagnia, quando ecco, di colpo, la sento alitare. E’ la Voce del luogo che mi parla. Prima adagio, poi forte e chiara. E, sopratutto, sempre più affine alla voce interiore.

«Sono contenta – mi spiega – che tu abbia voluto ricordare i molti preti che ebbero i natali in questo piccolo spazio. Avvenne per una stranezza del caso o per un misterioso disegno della Provvidenza? Nessuno può dirlo, ma accadde. In proposito, io potrei aiutarti a ricordare che a me è legato anche il nome di un prete forestiero, padre Del Campo, che qui istituì un ginnasio parificato. La sua scuola privata svolse un importante ruolo negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, offrendo la possibilità a molti meritevoli ragazzi stiglianesi di non interrompere gli studi dopo la scuola elementare.
Ma ora basta coi preti. E’ bene, invece, che tu parli di una persona, che hai avuto modo di conoscere e che ricordi con grande simpatia. Anche lui, pur non essendo prete, veniva indicato benevolmente con il “don”. Lo chiamavano don Pèppë lë Cëkuòt, don Peppe il Cieco. Ma l’appellativo, dovuto alla sua disabilità, era da tutti pronunciato sempre con affettuosa tenerezza».

Don Peppe con la Six Band anni 60
Don Peppe con la Six Band anni 60

«Sì, – le rispondo emozionato – certo che lo ricordo, il caro don Peppe. Ragazzino, ebbi modo di frequentare la sua casa con alcuni amici dell’Azione Cattolica, quando due monache ci accompagnavano da lui per preparare qualche recita. Era simpatico ed arguto. Sempre ci incoraggiava, prima di mettersi al pianoforte e dare inizio alle prove.
Un anno, era di maggio, stavamo preparando dei canti per festeggiare il compleanno del parroco, che, come si è detto, abitava nelle vicinanze. Una delle suore, assillante come sanno essere solo le suore quando diventano Missionarie della Petulanza, insisteva nel raccomandarci di cantare piano … piano … a bassa … a bassissima voce… Bisognava assolutamente evitare che don Giacomo potesse sentire e svanisse così l’effetto sorpresa nel giorno, ormai imminente, del suo genetliaco. Don Peppe per un bel po’ ascoltò con straordinaria pazienza la lagnosa tiritera monacale, fino a quando non riuscì più a trattenersi ed esclamò, facendo precedere le sue parole da una risata sdrammatizzante: “Suora, ma lo sa che lei sta chiedendo a questi bambini di compiere un autentico miracolo? Riuscire a cantare in silenzio! Comunque, va bene, proviamoci… E che il Signore e san Giacomo ci diano una mano”.
Di don Peppe ricordo anche che spesso passava per la Villa, quando si recava a suonare all’asilo infantile, accompagnato da Cenzino Mancino, un insegnante poi trasferitosi in Puglia. Rimanevo sempre stupefatto perché, quando era ancora lontano, salutava mio padre, chiamandolo per nome ad alta voce e chiedendogli come stesse e cosa facesse. Giunto poi sulla soglia del negozio, si fermava qualche istante e preannunciava una sua sosta più lunga al ritorno. Cosa che puntualmente avveniva e, allora, mi piaceva ascoltare i loro discorsi sempre cordiali e amichevoli. Solo quando parlavano di calcio, si accaloravano e fingevano anche di litigare, essendo don Peppe accanito sostenitore della grande Inter e mio padre del Bologna che tremare il modo fa … Anzi, aveva fatto tremare, ma in tempi ormai troppo lontani, correggeva perfidamente il Maestro.
Ah, il caro don Peppe. Era diventato cieco poco dopo la nascita per il tragico errore di un medico, che gli aveva fatto somministrare un medicinale sbagliato. La famiglia aveva provveduto allora a farlo accogliere nel famoso Istituto napoletano “Domenico Martuscelli”, fondato nel 1873 e ben presto divenuto uno dei più importanti d’Italia per l’educazione dei ragazzi privi della vista. Il piccolo Peppino, che aveva subito mostrato una particolare inclinazione per la musica, ebbe così la possibilità di frequentare il prestigioso Conservatorio “San Pietro a Maiella”, dove conseguì il diploma di violino.
Fu preso a benvolere da uno dei suoi Maestri, direttore d’orchestra del mitico Teatro San Carlo, che spesso lo invitava a seguire le prove in preparazione delle stagioni musicali. Pare anche che il Maestro tenesse in gran conto il parere e le osservazioni del suo giovane allievo, che non nascondeva il suo imbarazzo per gli elogi ricevuti da una persona così autorevole. Ad accompagnare Peppino al San Carlo provvedeva quasi sempre Pietro Platini, un insegnante dell’Istituto Colosimo, che era emigrato a Napoli da Castelletto Ticino, proprio quando un suo fratello aveva preferito prendere la via della Francia. Nel Paese d’Oltralpe il fratello di Pietro diventò Monsieur Platinì ed ebbe un figlio, Michel, destinato ad affermarsi come un grande campione di calcio.
Don Peppe, ancora giovane, decise di non stabilirsi a Napoli, ma di rientrare a Stigliano, dove visse fino all’inizio del 1968. All’inizio di quell’anno, pur non essendo in buone condizioni di salute, espresse il desiderio di assistere alla partita di calcio Napoli-Inter, che si giocava al San Paolo il 7 gennaio. Il nipote Michele e due fraterni amici, Giovanni Pasciucco, noto Spacchèttë, e Mario Soldo, non seppero dirgli di no e lo accompagnarono volentieri. Purtroppo il freddo gelido patito allo stadio gli procurò una brutta broncopolmonite, che lo stroncò. Morì due giorni dopo, all’età di sessantadue anni. Scomparve così un Maestro, che a Stigliano purtroppo è stato colpevolmente dimenticato da molti».

Cala un quieto silenzio, che la Voce interrompe, discreta, solo dopo alcuni minuti. «Capisco – mi dice – quello che stai pensando. Sappi che ormai non riesci a nascondermi più nulla e per me sei come un libro aperto. Permettimi di suggerirti allora di superare il tuo comprensibile imbarazzo e di raccontare pure l’altra storia, che hai in mente. So bene, infatti, che ti sta molto a cuore».
Incoraggiato da queste parole, riprendo allora volentieri a narrare e le dico. «Più che una storia, questa che sto per raccontare a me pare piuttosto una favola, una favola meravigliosa. Non lontano dalla casa di don Peppe, tredici anni dopo la sua morte, venne al mondo una bambina, destinata a diventare una famosa cantante lirica. Anche quest’ultimo evento fu puro caso, felice coincidenza, o misterioso disegno della Provvidenza? Ognuno decida come meglio ritiene. Io, per mio conto, mi limito a stare ai fatti.
Grazia Doronzio nacque nel 1981 nella via dei Preti, che forse a questo punto io chiamerei piuttosto via della Musica. Fin da piccola, palesò doti non comuni e una forte inclinazione per il canto. Papà Andrea e mamma Giulia ne assecondarono premurosamente la vocazione e Grazia poté così prendere le prime lezioni a Matera e a Potenza. Si diplomò, quindi, al Conservatorio “Rossini” di Pesaro, si perfezionò all’Accademia Santa Cecilia di Roma e si specializzò al Metropolitan Opera di New York. Iniziò allora una brillante carriera, che la portò ad esibirsi nei più prestigiosi teatri nazionali e mondiali. Al San Carlo di Napoli e al Regio d Torino, a Ginevra, a Francoforte, a Berlino, a Parigi e negli Stati Uniti hanno potuto ammirarne la voce straordinaria. Le sue interpetrazioni di Mimì ne “La Bohème”, di Liù nella Turandot, o di Susanna ne “Le nozze di Figaro” hanno suscitato unanime approvazione da parte della critica e del pubblico. E oggi la giovane soprano stiglianese è considerata una delle voci più interessanti del nuovo Millennio. Ne ha fatta veramente di strada Grazia, che però non ha mai smarrito la sua umiltà e i profondi e solidi valori ereditati dalla famiglia».

Grazia Doronzio
Grazia Doronzio

Mentre ricordo, emozionato, la bella avventura artistica di Grazia, ho percorso un bel tratto di strada. Interviene allora di nuovo la Voce, che mi sussurra: «E’ davvero una storia incantevole e ti ringrazio di avermela fatta ascoltare. Per ripagarti, sarò io adesso a raccontarti brevemente la storia, altrettanto favolosa, di un’altra ragazza stiglianese. Vedo che hai già capito di chi si tratta. E’ Maria Lauria, che tu conosci. Ha avuto grande e meritato successo come attrice nel cinema e, soprattutto, nel teatro. Nata a Stigliano nel 1971, dopo aver conseguito la maturità classica al rinomato liceo Tasso di Salerno, divorata dalla passione per il cinema, frequentò a Roma molti e importanti laboratori e stage di dizione, recitazione e drammaturgia teatrale. Ebbero inizio, cosi, le sue prime esperienze in televisione. Nel cinema fu diretta da Carlo Vanzina e Marco Risi nei film “Un’estate ai Caraibi” e “Fortapàsc”. Ma è soprattutto in campo teatrale che l’attrice stiglianese ha dato e continua a dare il meglio di sé. Basti ricordare che ha lavorato con registi del calibro di Carlo Croccolo, Aldo Giuffrè, Luigi De Filippo, Roberto D’Alessandro, in opere come “Miseria e nobiltà”, “Non ti pago”, “Non è vero ma ci credo”, “E pensare che eravamo comunisti”, per comprendere come Maria ne abbia fatta di strada dal giorno del suo esordio. E, cosa molto significativa, senza mai perdere l’umiltà e rinnegare le sue origini. Insomma, nessun atteggiamento da diva».

in alto a sinistra Maria Lauria al Teatro Pezzani di Parma
in alto a sinistra Maria Lauria al Teatro Pezzani di Parma

«Sono assolutamente d’accordo – confermo con convinzione – e ne sono testimone diretto per un episodio significativo, accaduto quattro anni fa. Ero al Teatro “Renzo Pezzani” di Parma, per assistere alla rappresentazione dell’atto unico “Le preziose ridicole”, liberamente tratto dalla celebre opera di Molière. In quella occasione ebbi modo di apprezzare non solo il notevole talento artistico di Maria, ma anche il suo grande spessore umano. Mentre recitava, come candidamente confidò, riconobbe tra il pubblico mio figlio Nicola. Alla fine dello spettacolo, perciò, non esitò a raggiungerci, anche se si era fatto tardi. Ci salutò con grande affetto e parlammo a lungo di tante cose. Mentre chiacchieravamo amabilmente fuori del teatro, apprese da me che il giorno dopo avrebbe trionfato a pranzo sulla nostra tavola una monumentale “rafanata”. Non con l’arte consumata della grande attrice, ma con il cuore aperto delle persone vere, che ovunque vadano si portano dietro il profumo della propria terra, espresse in dialetto il forte rammarico di dover partire all’indomani. Fui davvero orgoglioso di trovarmi di fronte ad una mia concittadina, che confermava di essere una grande artista e una grande donna».

Sono giunto, intanto, alla fine della strada. Mi stupisco che tante storie continuino a vivere in un paese, che ora appare stanco e avviato a un malinconico declino. E’ davvero sorprendente come le storie qui, anche le più belle, spuntino, improvvise e prepotenti, come funghi in una buona stagione. O, si potrebbe dire, come i fiori selvatici tra i crepacci delle familiari rocce del Carvutto, che ora mi si parano di fronte. Si tratta solo di avere un po’ di pazienza per raccoglierle e raccontarle.

Angelo Colangelo

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