La Chiazza racconta

Rischio di perdermi, come in un labirinto, in questo dedalo di viuzze che da ragazzo riuscivo a percorrere ad occhi chiusi. L’incertezza di questa sera mi procura una strana sensazione di smarrimento, che supero solo quando finalmente riesco a sbucare, senza l’aiuto di nessun filo di Arianna, nel familiare e sospirato slargo della Chiesa Madre. E’ deserto.
Entro in chiesa. Nel vuoto carico di religioso silenzio rimango assorto ad osservare il magnifico polittico, che la impreziosisce dal 1883. Raffigura la Madonna col Bambino, l’Incoronazione della Vergine, Eterno Padre e Santi. Non mi sazio mai di ammirarlo. E’ davvero di notevole pregio artistico. In legno intagliato, dorato e dipinto, è situato sugli stalli del mirabile coro, che è dietro l’altare centrale.
L’opera sarebbe stata eseguita da Simone da Firenze nel 1521, su committenza del duca di Mondragone Antonio Carafa. Fu destinata all’antico convento di Sant’Antonio da Padova, che nel 1480 Eligio della Marra aveva fatto costruire, affidandone i lavori forse a Jacopo Trifoggio. Il capomastro stiglianese si era già fatto apprezzare per lavori importanti di ampliamento e di restauro nel Castello dei Colonna. Il Convento ospitò una comunità di 18 monaci appartenenti all’Ordine francescano dei Minori Osservanti, meglio noti come Zoccolanti, per i loro caratteristici sandali. Distrutto il Convento probabilmente da uno dei tanti eventi franosi che tormentano da secoli il territorio, il polittico fu salvato e sistemato nella Chiesa Madre. Nel nuovo Convento, invece, furono trasferite altre opere importanti e le preziose campane, compresa la più grande, costruita nel 1602 da Gaspare di Missanello.

Esco dalla Chiesa, che è antica ma fu soggetta a diverse trasformazioni nel corso del tempo, a partire da quella del 1623, voluta e finanziata dalla famiglia Tuzio e Ursone. Mi fermo un po’ sull’affaccio a guardare, estasiato, verso la campagna dove fino a qualche anno fa si ergeva, enigmatica sfinge, la slanciata scultura rocciosa di Pìt Palómm’, sapientemente modellata dalle mani fatate di Madre Natura. Era capace di calamitare sempre la curiosa attenzione di noi ragazzi, che la guardavamo come una creatura viva ed affascinante.
Mi possiede ora un beato stato di estraniamento. D’improvviso percepisco un flebile sussurro. «Finalmente sei tornato. Ti sei deciso a vincere la tua innata pigrizia e a sconfinare, una volta tanto, fuori dalla tua Villa. Sembri esserne diventato prigioniero. Eppure, dovresti saperlo che anch’io ho un sacco di ricordi e di storie da raccontarti».
Mi guardo intorno, curioso. Non c’è anima viva, a quest’ora, nella Chiazza. E’ un fantasma il Centro Storico di Stigliano. Non bastano, purtroppo, a rianimarlo le meritorie iniziative di persone ammirevoli come Rocco De Rosa, che l’ha dotato di un interessante Museo della Civiltà contadina, o di Felice Lacetera, impegnato nel recupero della casa della famiglia di Jimmy Savo e nella valorizzazione dell’attività artistica dell’attore americano di origini stiglianesi.
La Chiazza rimane vuota per gran parte dell’anno. Come il resto del paese, quasi del tutto disabitato per effetto di una drammatica fuga di massa, che dura dall’inizio del secolo passato e pare aver prodotto una vera e propria necrosi del territorio. Troppi stiglianesi in Italia e nel mondo. Troppo pochi, perlopiù anziani, a Stigliano. E l’emorragia non accenna a fermarsi.
Insomma, tutt’intorno è silenzio, qui. E io sono molto contento che anche la Chiazza abbia espresso il desiderio di parlarmi. Ancora una volta incuriosito, mi preparo dunque ad ascoltare. Con interesse e meraviglia.

«Mio caro, sono ormai vecchia, è vero. Ma ti assicuro che ho una buona memoria. Ricordo ancora quando per due anni scendesti dalla Villa con molti altri tuoi coetanei, per raggiungere Palazzo Mendaia. Era una delle tante case disseminate nel paese che, pur sprovviste di servizi igienici e di riscaldamento, erano adattate ad aule, in assenza di un edificio scolastico. Arrivavate puntuali ogni giorno, con il caldo o con il gelo, con il vento o con la pioggia. Intruppati e alla spicciolata. Piccoli soldati di uno strano esercito, che si apprestava a conquistare con fatica i primi rudimenti del sapere.
Al mattino eravate seri e silenziosi. Alcuni erano immusoniti. Altri, ancora tenuti amorevolmente tra le braccia da Morfeo, si stropicciavano inutilmente gli occhi, continuando imperterriti a sbadigliare. All’uscita correvate via sfrenati e urlanti al mondo la vostra gioia incontenibile. Non era raro, allora, vedere cartelle di pezza, di cartone, di metallo volare per aria e sfiorare pericolosamente le vostre teste. Un modo un po’ troppo esuberante di manifestare

Angelo Colangelo alle elementari
Angelo Colangelo alle elementari

la vostra urgenza di libertà, dopo essere stati per quattro interminabili ore inchiodati fra i banchi. Una pena insopportabile, soprattutto nelle splendide giornate di primavera, quando fuori le rondini garrivano in cielo e con i loro liberi voli catturavano la vostra attenzione. Trascinandovi, sognanti, verso mondi fantastici.
Si era tra il 1953 e il 1955 – prosegue la Chiazza con la sua narrazione che si fa via via sempre più appassionata -. In quegli anni tu frequentasti la prima e la seconda elementare. Il vostro maestro, severo ma bravo, era don Alfredo Salomone. Eravate in tanti. Ventotto, se non ricordo male. Ma, dopo le vacanze di Natale, in seconda elementare, Giovanni vi lasciò. Era un bambino buono e intelligente. La sua famiglia, poverissima, occupava uno dei primi posti nel famigerato elenco comunale dei poveri. Una brava maestra di Brescia, mutatasi in favolosa principessa, l’aveva adottato e l’aveva portato via con sé. Strappandolo alla miseria e regalandogli un futuro migliore. Per voi fu un momento di grande dolore, ma il maestro fu bravo a consolarvi. Vi disse che Giovanni aveva trovato una seconda mamma, che si sarebbe preso cura di lui. Come purtroppo Maria, la vera mamma, che pure gli voleva tanto bene, non era in grado di fare a causa della povertà estrema che l’affliggeva».
La Chiazza non riesce a nascondere la sua emozione e fa una breve pausa. Ne approfitto per intervenire a mia volta. «Ricordo bene – assicuro – gran parte dei miei compagni di allora, anche se molti non li rivedo da tanti anni. Qualcuno non l’ho più incontrato, qualche altro solo dopo decenni. Ed è stata sempre una gran festa. Un momento di intensa emozione. Giovanni l’ho rivisto per caso una volta sola. A Stigliano, oltre trent’anni fa. Ormai adulti entrambi e lui professionista affermato. Benché fossero trascorsi tanti anni, ci riconoscemmo subito. Ci abbracciammo. A lungo e in silenzio. Dopo aver parlato per un po’, ci salutammo con l’intento sincero di ritrovarci. Non è ancora accaduto».
Ho un comprensibile momento di pausa, mi schiarisco la voce e proseguo, lasciandomi trascinare dall’onda dei ricordi.
«Carissima, non dimentico che io e te, invece, dopo i due anni della scuola elementare continuammo a vederci quasi quotidianamente. Frequentavo, con la numerosa “banda” della Villa, la sede dell’Azione cattolica, voluta da don Alberto Distefano subito dopo il suo arrivo a Stigliano come collaboratore del parroco, mons. Don Rocco Longo. Il giovane sacerdote di San Mauro, che fu anche nostro insegnante di religione alla scuola media, organizzava ogni tanto appassionanti escursioni e cacce al tesoro. Così familiarizzava con noi, ci invogliava a partecipare assiduamente alle funzioni religiose e c’investiva a turno del compito di fare i chierichetti. Eravamo molto fieri se eravamo prescelti per il delicato incarico e lo assolvevamo con serietà e compunzione».

A questo punto è la Chiazza che interrompe me. Quasi bruscamente. E, dopo avermi fissata con sguardo sornione, si riprende la parola.
«Sì, lo so bene. E’ vero quello che dici. Ma non è tutta la verità. E tu lo sai. Io, perciò, vorrei anche raccontare altre cose che tu preferiresti non dire, perché ora forse ne provi disagio. D’accordo, non si può negare che eravate abituali frequentatori della chiesa, ma è il momento di confessare che non lo facevate per puro spirito religioso. Anzi. Ricordi, ad esempio, quello che accadeva in occasione delle novene di Natale, che si tenevano alle cinque del mattino?».
Si ferma un po’, pur sapendo di non doversi aspettare da parte mia nessuna risposta alla sua maliziosa domanda. Riprende allora il filo della narrazione e così prosegue di getto, mostrando una memoria formidabile.
«A volte scendevate correndo all’impazzata dalla Villa e mi riempivate di urla selvagge. La gente si svegliava di soprassalto e balzava giù dai letti. Impaurita. Altre volte venivate giù più silenziosi degli indiani, che nei vostri film prediletti vedevate strisciare circospetti per sorprendere i loro nemici. Vi fermavate davanti alla casa di una povera coppia di anziani e, protetti dal favore delle tenebre, accatastavate davanti all’uscio della legna. Abilissimi a non far il benché minimo rumore. Al ritorno dalla chiesa, godevate come matti assistendo alla reazione di zio Salvatore V. che al risveglio, aprendo la mezza porta ancora assonnato, si ritrovava interdetta l’uscita. Sconcertato davanti all’inatteso e insopportabile spettacolo, iniziava il difficoltoso lavoro di sgombero del muretto di legna, lanciando maledizioni a tutti i diavoli dell’inferno e … della terra.
Una volta entrati in chiesa, poi, molto spesso la vostra occupazione era ben altra che seguire con devozione la novena e la messa celebrata da don Alberto. Con pazienza certosina, invece, vi prendevate la briga di legare abilmente fra loro gli scialli delle vecchiette che, al momento della comunione, tiravano con forza chi da una parte chi dall’altra, senza poter uscire dai banchi. Si assisteva, nella grande confusione, a scene comiche e assurde. Non eravate per niente preoccupati di profanare la sacralità del tempio».

Non riesco a nascondere il mio imbarazzo. Ad evitare che la Piazza prosegua su questa falsariga, cerco di distrarla, cogliendo un suo punto debole. Le dico di parlarmi di un mio amico, sapendo che per lui stravede. E ne ha tutte le ragioni. Fingendo di non ricordare bene la sua storia, chiedo di raccontarla a lei che ben la conosce, perché sempre si prende cura di seguire i suoi figli, anche quando se ne vanno lontani. La Piazza abbocca, o simula di abboccare. Non si fa pregare più di tanto e inizia volentieri il nuovo racconto.

  Nicola Iosca«Eh sì, era proprio bravo il tuo amico! Me lo ricordo bene quando, ancora bambino, mi inondava con il suono melodioso di una fisarmonica cromata, che un amico gli prestava volentieri. Un’autentica passione per la musica quella di Colino, come voi allora affettuosamente lo chiamavate. Una passione senz’altro ereditata e assecondata dal padre, mastro Rocco, bravo suonatore di organetto, che aveva la sua bottega di calzolaio nella tua Villa, non lontano dal negozio di tuo padre. E, quando Nicola aveva ancora undici anni, suo padre con grandi sacrifici gli comprò una fisarmonica a piano. Era usata, ma per adesso poteva bastare per dare sfogo al suo estro. In poco tempo il tuo amico, grazie alla guida sapiente del Maestro Giuseppe Colangelo, fece passi da gigante. Mise in mostra un talento straordinario al punto che, appena dodicenne, già suonava in una orchestrina del paese, in occasione di feste e matrimoni. Ma evidentemente non era solo l’amore per la musica ad ardere nell’anima di Nicola. Fin da piccolo nutrì una passione divorante per il disegno e la pittura. Un pezzo di carbone, un gessetto o un mozzicone di matita diventavano nelle sue mani prodigiosi strumenti per dare vita a disegni di oggetti e a ritratti di persone, che lasciavano tutti stupefatti.
Finita la scuola di avviamento, a causa delle difficili condizioni economiche della famiglia, Nicola decise di espatriare. A soli diciassette anni, con mamma Angela e la sorella Rosa, lasciò con grande dolore Stigliano e raggiunse Antonietta e Lucietta, le altre due sorelle, che già da alcuni anni vivevano a New York. Qui fece diversi lavori, prima di diventare decoratore di case e di chiese. Le cose sembravano finalmente mettersi per il meglio, quando altre nere ombre si addensarono minacciose sulla sua strada.
Nicola, per tutti ormai Nick, fu chiamato a prestare servizio militare. Aveva ventuno anni, quando nel 1965 partì per l’inferno del Vietnam. Ebbe modo di vedere da vicino gli orrori di una guerra insensata, come e più di tutte le guerre. Il plotone, cui apparteneva, incominciò a subire gravi perdite, fino ad essere decimato. Nick era sempre più terrorizzato, vedendo i compagni cadere uno dopo l’altro. Lui stesso, intanto, era stato colpito da febbri violente. Si comprese subito che erano provocate da una forte allergia alle zanzare, che infestavano quei luoghi mefitici.
La malattia fu la sua salvezza. Trasportato in un ospedale specializzato in Giappone, Nicola s’imbatté in un ufficiale medico appassionato di arte. Che rimase incantato alla visione di alcuni suoi disegni e gli chiese di realizzare per lui due dipinti ad olio. La raffinata fattura dei due quadri non poteva sfuggire all’occhio esperto del singolare committente, il quale decise che un simile talento non poteva morire tra gli orrori della guerra nell’aspro territorio vietnamita. Nick fu fatto rientrare in America, dove completò i due anni di servizio nelle forze armate statunitensi. L’arte e le zanzare avevano compiuto uno straordinario miracolo».
La Chiazza ha bisogno di tirare il fiato, ma non intende concludere la sua narrazione, senza aver prima accennato all’attività artistica di Nicola. Si vede che lo ama profondamente. E’ uno dei suoi tanti figli costretti a partire ed è stato capace di costruirsi un progetto di vita lontano da casa. Per questo, dopo una breve pausa, così riprende a parlarmi. Con tono adesso più rasserenato e di legittimo orgoglio.

Nicola Iosca, donazione del dipinto di Sant'Antonio
Nicola Iosca, donazione del dipinto di Sant’Antonio al Convento di Sant’Antonio di Stigliano (MT)


«Una volta ottenuto il congedo definitivo, Nick poté finalmente coltivare le sue due grandi passioni. Riprese a suonare la fisarmonica e si mise a studiare jazz con i musicisti newyorkesi più affermati. Nello stesso tempo frequentò le più prestigiose Accademie d’Arte e si dedicò con forza allo studio di scultura, anatomia e prospettiva. Avendo come Maestro Raymond Breinin, uno dei più famosi ritrattisti del suo tempo, acquisì una tecnica raffinatissima anche nell’arte del ritratto, in cui si rivelò imitatore geniale di Caravaggio. Il grande e tormentato pittore lombardo diventerà il suo modello ideale anche per i soggetti religiosi dei suoi stupendi dipinti. Così Nicola ebbe modo di farsi conoscere e cominciò a dipingere per gallerie e privati. Le sue straordinarie qualità artistiche furono apprezzate anche dopo il rientro in Italia, avvenuto nel 1979. Ora vive in provincia di Caserta, ma non dimentica ogni anno di tornare a Stigliano per salutare parenti ed amici. E non c’è volta che non si ricordi anche di me. Puntualmente viene a farmi visita e non manca di passare emozionato davanti alla sua casa natale. Per questo, grande è stato il mio dispiacere per non averlo potuto salutare quest’estate. Comunque, lo aspetto fiduciosa per il prossimo anno. Magari in tua compagnia».
Nel pronunciare le ultime parole, la voce della Chiazza illanguidisce. Dopo un po’ si spenge. Rimane nell’aria ammaliatrice l’incanto dei ricordi.

Angelo Colangelo

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