Il “Cristo …” di Carlo Levi 75 anni dopo

E’ arcinoto che “Cristo si è fermato a Eboli”, l’opera di Carlo Levi letta in ogni angolo del mondo grazie alle 38 traduzioni che si sono succedute negli anni, fu pubblicata nel 1945. E’ altrettanto risaputo che la stesura era iniziata nel dicembre 1943 e terminata nel luglio dell’anno successivo a Firenze, mentre il conflitto divampava e l’autore si era rifugiato nella casa ospitale di Anna Maria Ichino in Piazza Pitti, per sfuggire ai rastrellamenti dei nazifascisti.
Sulla scorta di lettere ed appunti, ma sopratutto delle poesie e dei disegni realizzati nel periodo del confino, che funsero da “puntelli della memoria”, come ben disse Giovanni Battista Bronzini, il “Cristo” fu scritto di getto circa sette anni dopo la permanenza coatta in Lucania, cui l’autore era stato costretto per circa dieci mesi, a Grassano prima e poi ad Aliano, per la sua attività antifascista. E quando, consumatasi la terribile tragedia del secondo conflitto mondiale, il libro uscì presso Einaudi, suscitò subito un moto generale di sorpresa e un coro ampio, seppure non unanime, di apprezzamenti molto favorevoli da parte del pubblico e della critica.


Si sarebbe poi detto anche, esagerando, che la fortuna dell’opera leviana era dovuta al fascino del titolo. A tal proposito Émile Poulat (Lione, 1920 – Parigi, 2014) annotò che «ce titre est une trouvaille. Il frappe l’immagination: impossible de l’oublier». Si può certo convenire con lo storico e sociologo francese che il titolo “Cristo si è fermato a Eboli” fu una trovata, capace di colpire l’immaginazione al punto che è impossibile dimenticarsene, ma evidentemente le ragioni del successo sono ben più consistenti e afferiscono al valore letterario, alla forza poetica, all’energia della denuncia politica e sociale.
Innanzi tutto merita di essere sottolineata l’originalità della scrittura, che rende, per ciò stesso, l’opera di non agevole classificazione. Da molti, ancora oggi, essa è considerata erroneamente un romanzo, mentre altri in modo altrettanto improprio la ritengono un saggio. Noi pensiamo che si possa concordare con Rocco Scotellaro, che con felice intuizione la definì un «memoriale», anzi «il più appassionato e crudele memoriale dei nostri paesi», capace di «fare schiattare i signori nel sonno, meccanicamente, per la forza di verità».
Benché sia ininfluente ai fini della comprensione dell’opera, l’individuazione del genere letterario, in cui andrebbe collocato il celeberrimo “Cristo” di Carlo Levi, presenta difficoltà derivanti dalla ibridazione stilistica, perché in esso felicemente convivono la narrazione degli eventi, l’analisi socio-antropologica della comunità lucana, la rappresentazione estetica del paesaggio e, a tratti, una trepida evocazione lirica. Le molte e varie connotazioni, a loro volta, sono senz’altro conseguenza del fatto che esse rappresentano una realtà, che, solo in apparenza segnata da una spoglia semplicità, si manifesta invece molto complessa all’occhio attento e penetrante dell’artista forestiero improvvisamente catapultato nel mondo contadino lucano da una remota città industriale del Piemonte.
E’ quello contadino, infatti, un mondo in cui coesistono e talora si fondono, fino a costituire un magma indistinto, storia e magia, scetticismo e superstizione, religione e incredulità, evidenza e mistero. E’, peraltro, un mondo tormentato dalla malaria perniciosa e dalla miseria secolare, che i contadini accettano con la stessa paziente rassegnazione con cui tollerano i soprusi e le angherie della piccola e gretta borghesia, che poi Levi indicherà spregiativamente con il nome di “luigini”, dal nome del podestà Luigi Magalone.
Fin dal primo momento, insomma, questo mondo che è così chiuso nella sua eterna immobilità da risultare un’entità metastorica, appare a Levi sfuggente e misterioso nel suo immedicabile dolore. E lo induce, oltre che a condividere con umana solidarietà le sofferenze dei contadini, a tornare a riflettere sulla eterna questione meridionale, di cui già si era occupato negli anni giovanili, grazie alla frequentazione di Piero Gobetti.
In effetti, essa si rivelava più che mai attuale, benché Mussolini avesse ritenuto di risolverla nella maniera più comoda, ovverossia negandone sbrigativamente l’esistenza. Al contrario, negli anni della dittatura fascista le condizioni sociali ed economiche del Mezzogiorno si erano ancor di più aggravate rispetto al periodo post-unitario, come avrebbero attestato di lì a qualche anno le epiche rivolte contadine per l’assegnazione delle terre. Basti ricordare i fatti che a Montescaglioso, a Melissa, a Portella della Ginestra segnarono con il sangue l’inizio della storia repubblicana.
Il “Cristo” di Levi, pertanto, quando vide la luce, non senza motivo fu accolto sopratutto come un libro di forte denuncia e la sua fama immediata, dentro e fuori i confini nazionali, attirò sulla Lucania l’attenzione e la curiosità di molti studiosi, economisti, etnologi, antropologi, cineasti, sia italiani che stranieri. Il libro suscitò l’interesse di tanti ed entusiasmò un imprenditore illuminato come Adriano Olivetti, che s’impegnò poi a fare di Matera un autentico “centro di utopia progettuale”, confermando che il Gruppo di “Comunità”, da lui fondato, era stato fortemente influenzato dal pensiero leviano.
Si può dire, allora, che Carlo Levi fece in qualche modo da apripista alle indagini di vario genere condotte sul campo da Edward C. Banfield, George Terhune Peck, Ernesto de Martino, Tullio Tentori, Ludovico Quaroni, Henri Cartier-Bresson e, ultimo ma non ultimo tra i pochi nomi citati, Friedrich George Friedmann.
Questi, com’è noto, dovendo realizzare nel 1950, nel contesto del “Progetto Fulbright”, una ricerca sulle condizioni di vita dei contadini italiani, fu indirizzato a Matera proprio da Carlo Levi. Qui, avvalendosi della collaborazione di Manlio Rossi-Doria, divenuto, con il suo Osservatorio di Economia istituito presso la facoltà di Agraria di Portici, punto di riferimento irrinunciabile per gli studiosi stranieri, diede vita a un gruppo di lavoro interdisciplinare, di cui fecero parte, fra gli altri, il giovane sociologo Gilberto Marselli e il medico tricaricese Rocco Mazzarone, già da tempo sensibile ai problemi sociali della sua terra.
Decisiva fu, dunque, anche l’incidenza che Carlo Levi ebbe nell’azione di risanamento e di recupero dei Sassi, della cui vita estremamente degradata aveva offerto proprio nel “Cristo” una cruda descrizione attraverso il racconto che ne faceva fare dalla sorella Luisa. La lucida narrazione leviana della miserevole esistenza dei contadini di Matera trova, peraltro, autorevole riscontro nell’inchiesta condotta nel 1938 con scrupolo metodologico dall’Ufficiale Sanitario materano Luca Crispino, nonché dagli autorevoli studi realizzati sulla situazione demografica e sanitaria da Rocco Mazzarone nei primi anni Cinquanta nell’ambito della già citata indagine coordinata dal filosofo Friedmann.
Se i Sassi, perciò, diventeranno patrimonio dell’UNESCO nel 1993 e Matera sarà Capitale Europea della Cultura nel 2019, merito grande deve essere riconosciuto allo scrittore torinese, che tramite il suo libro aveva calamitato l’attenzione del mondo su quella comunità da lui eretta simbolicamente al ruolo di «capitale dei contadini». Si può allora concordare con lo storico Giuseppe Maria Viscardi, quando sostiene che «il romanzo di Levi ha cambiato, se non la storia, certamente il destino della Lucania», al punto che non è azzardato affermare che «la storia lucana si divide in un ‘prima del Cristo di Levi’ e un ‘dopo il Cristo di Levi’».
A questo punto, però, non si può chiudere questa nota scritta a 75 anni dalla pubblicazione di “Cristo si è fermato a Eboli” e a 85 dall’arrivo del suo autore in Lucania, senza accennare, seppure brevemente, al tema dell’attualità del memoriale leviano.
E’ innegabile che la Lucania-Basilicata è oggi completamente diversa da quella che aveva conosciuto a suo tempo Carlo Levi. Anche questa piccola regione, da sempre marginale rispetto al contesto sia nazionale che meridionale pure a causa della sua irrilevanza demografica, tanto da essere stata considerata quasi un Sud del Sud, è radicalmente mutata negli ultimi tre quarti di secolo. E’ altrettanto vero inoltre, ed è un elemento che merita di essere sottolineato, che le numerose trasformazioni, avvenute fino ad oggi a partire dagli anni Cinquanta del secolo passato, hanno in concreto generato solo un deprecabile sviluppo senza progresso.
Scomparso è, dunque, il mondo contadino e con esso l’assetto sociale ed economico, spazzato via prima dall’aborto della Riforma Fondiaria e poi dai fallimentari piani d’industrializzazione. Con il mondo contadino è altresì scomparso il sistema di valori etici e sociali, che erano alla base della sua cultura e che non hanno trovato spazio nel passaggio tumultuoso e caotico alla modernità: la sobrietà, la parsimonia, lo spirito di solidarietà, un profondo sentimento di umana pietas e, infine, una rara dignità nell’accettazione della miseria, come ebbe modo di registrare e di spiegare lo stesso Friedmann nel saggio «The world of ‘la miseria’».
Non è azzardato dire, perciò, che la lezione più importante che può fornire la lettura, o una rilettura, del “Cristo” di Levi, a noi che abbiamo scavalcato il secondo millennio, riguarda proprio il recupero dei valori smarriti in seguito alla scomparsa della cultura contadina.
La Lucania-Basilicata, infatti, che continua ad essere afflitta da problemi annosi, come la disoccupazione e l’emigrazione, si trova a sopportare ora nuovi mali, come la spoliazione selvaggia delle sue rilevanti risorse e il conseguente grave disastro ambientale, provocati dall’azione malefica dei nuovi “luigini”, cioè di una classe politica in gran parte inadeguata e insipiente, opportunista e trasformista, spesso corrotta e immorale, che ha agito ed agisce mossa solo da un’insaziabile avidità del potere. E che, per questo, non ha esitato a rendersi connivente di potentati economici, supportando e alimentando il loro arrogante cinismo e la loro sfrenata rapacità. La Lucania-Basilicata, così, sotto il peso gravoso di mali antichi e recenti è diventata una colonia, esposta dal malgoverno, dal clientelismo e da scelte politiche insensate al rischio concreto di una paurosa desertificazione.
Data questa situazione, è immaginabile che una svolta sia possibile solo creando le condizioni per una rigenerazione della vita politica e sociale. Che non può nascere se non dal basso, sostenuta delle forze ancora sane che pur non mancano, intellettuali e persone di varia estrazione della cosiddetta società civile, “i contadini” leviani appunto. A loro tocca il compito non facile di progettare e di edificare una nuova etica e un nuovo Umanesimo. Utopia? Forse. D’altronde, è difficile intravedere credibili opzioni alternative.

Angelo Colangelo

 

leggi anche: i vincitori del Premio Letterario “C. Levi” 2019

 

 

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