Eccellenze lucane

Eccellenze lucane

Fervono i lavori per l’allestimento della mostra “Carlo Levi a Firenze – Un anno di vita sotterranea”, che sarà presentata ufficialmente l’8 febbraio alle ore 11,30. Organizzata dalla Fondazione “Giorgio Amendola” di Torino con la collaborazione della Fondazione “Carlo Levi” di Roma e con il patrocinio della Regione Toscana e dei Comuni di Firenze e di Torino, resterà aperta al pubblico nello storico Palazzo Medici Riccardi di via Cavour dal prossimo 9 febbraio fino al 19 marzo.
Essa, come si evince dal titolo, intende ricordare una delle fasi più drammatiche della biografia di Levi, che fra il 1943 e il 1944 fu costretto alla clandestinità per sfuggire alle persecuzioni nazifasciste. E fu proprio in quel periodo che si convinse a scrivere il suo libro di maggiore successo, mentre con altri antifascisti viveva nascosto nella casa di Anna Maria Ichino a Piazza Pitti. Ora va riconosciuto che, se grazie al celeberrimo “Cristo si è fermato a Eboli” Levi gode di meritata fama anche fuori dai confini nazionali, per la sua intensa e poliedrica attività di scrittore, pittore, intellettuale, politico rappresenta una delle figure più significative del Novecento italiano. A dispetto di quei pochi irriducibili, che di tanto in tanto continuano a manifestare fremiti di insulso antilevismo.
Qui, però, io non desidero parlare del grande artista torinese, che rimase per sempre legato alla Lucania dopo esservi stato confinato tra il 1935 e il 1936 dal regime fascista, ma piuttosto di due lucani a tutto tondo, che lontano dalla loro terra dovettero cercare, e lo trovarono, il riscatto personale. La mostra dei dipinti leviani ha dato loro la possibilità di incontrarsi e durante l’incontro hanno pensato bene di telefonarmi per un affettuoso saluto. Ma, siccome i due sono dei vulcani perennemente attivi, che eruttano idee e progetti senza soluzione di continuità, nella nostra amabile conversazione mi hanno prospettato anche il proposito di creare insieme un evento leviano al Mercato Centrale di Firenze.
A questo punto, credo sia arrivato il momento di soddisfare la curiosità dei potenziali lettori e di svelare l’identità dei miei due amici. Sto dicendo, come alcuni avranno già capito, di Prospero Cerabona e di Umberto Montano.
Il primo con altri ventiquattromila lucani arrivò, non ancora ventenne, a Torino nel 1959 all’epoca della grande emigrazione, che rese il capoluogo piemontese la terza città meridionale d’Italia, dopo Napoli e Palermo. Si ritrovò in tal modo improvvisamente sradicato dai nudi calanchi di Sant’Arcangelo, dove era stato per alcuni anni un bracciante agricolo, e proiettato nella fredda città industriale, dove lavorò prima come operaio edile, poi come metalmeccanico, infine nella Ferrovia dello Stato.

Prospero Cerabona con Valdo Spini a Palazzo Medici Riccardi

Di là dalle diverse attività lavorative, Prospero s’impegnò assiduamente come sindacalista e politico nelle lotte per la rivendicazione dei diritti essenziali dei lavoratori e, pur non potendo contare su un elevato livello d’istruzione, non mancò di partecipare con grande interesse ai dibattiti e alle varie iniziative culturali, che fiorivano dentro e fuori il PCI, che fu il partito di appartenenza fino alla sua scomparsa, avvenuta, come è noto, dopo la caduta del Muro di Berlino.
Ebbe così modo di conoscere molti autorevoli compagni, ma costruì un rapporto particolarmente solido e fecondo con Giorgio Amendola, che sarà sempre per lui un prezioso punto di riferimento politico e morale. Ebbe anche modo di conoscere Carlo Levi e non esitò a collaborare con l’illustre artista torinese, quando nel 1967, insieme a Paolo Cinanni e ad altri, questi decise di dar vita alla FILEF, per poter dare assistenza ai lavoratori italiani emigrati all’estero e alle loro famiglie.
Cerabona non ha affievolito il suo impegno civico neppure dopo essere andato in pensione e come Presidente della Fondazione Amendola e dell’Associazione dei Lucani a Torino intitolata a Carlo Levi continua a dare da anni un notevole contributo al progresso sociale e culturale della comunità attraverso una intensa serie di ammirevoli iniziative.
Umberto Montano, invece, nato a Stigliano nel 1956, visse la fanciullezza e l’adolescenza in quel popoloso rione della “Villa”, che vide anche crescere l’autore di queste rapide note. Benché fosse, beato lui, di nove anni più piccolo, io e Umberto, dunque, respirammo entrambi l’aria della “Villa”, condividemmo la familiarità di luoghi, persone, fatti e ci nutrimmo di pensieri, sentimenti, affetti comuni.
Umberto Montano fu costretto poi a lasciare Stigliano nei primi anni ’80 per una triste e dolorosa vicenda, che ha voluto personalmente raccontare molti anni dopo nel prezioso volume collettaneo “Il cibo e la bellezza”. Nello stesso libro si evoca attraverso vari e autorevoli contributi un momento importante della sua straordinaria avventura fiorentina, legata al ristorante “Alle Murate”, dove durante i lavori di ristrutturazione fu scoperto tra i ricchi mirabili affreschi il vero volto di Dante.

da sinistra, Rocco Brancati, Angelo Colangelo, Umberto Montano, Maddalena Capalbi. Sede ANSPI Stigliano (MT)

Ma la svolta decisiva nella vita imprenditoriale di Montano si verifica nel 2014 con l’ideazione e la creazione, sempre ispirata da un’enorme passione per la ristorazione, del Mercato Centrale a Firenze, cui nel giro di pochi anni seguirà la nascita di strutture simili a Roma, a Torino, a Milano. Lasciamo la parola allo stesso protagonista per capire in cosa consiste questo progetto, che «è un grande atto di condivisione tra l’impresa, il pubblico e il territorio» e non prescinde mai da un’offerta di alto livello qualitativo.
«L’idea, che è alla base del Mercato Centrale, è il rispetto dell’identità dei protagonisti del cibo italiano, gli artigiani. Offriamo ai visitatori la possibilità di assaggiare differenti prodotti proposti e cucinati da chi li vende e ne è esperto. Ma il Mercato Centrale è anche un luogo dove si fa cultura, arte, cinema, letteratura, poesia musica».
Insomma, mi pare che i brevi profili sopra disegnati possano essere sufficienti per capire che Cerabona e Montano appartengono di diritto e a pieno titolo a quella categoria dei contadini nei quali Carlo Levi identificava «tutti quelli che fanno le cose, che le creano, che le amano, che se ne contentano». Peccato solo che abbiano dovuto mostrare i loro talenti lontano dalla loro terra, cui pure restano profondamente legati.

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