Addio anche alla chiesa di San Vincenzo???

Clientelismo, incultura e familismo hanno cancellato la nostra storia. Gli amici di CinicoFilm53 hanno letto con interesse l’appello del’architetto Pier Giulio Montano, a difesa del recupero statico e funzionale della chiesa di San

Vincenzo, che ha fatto seguito a quello lanciato tre mesi fa dal Prof. Mimmo Cecere, attraverso un manifesto denuncia in cui faceva risaltare la sostanziale incuria in cui versano i pur residui beni architettonici, artistici e ambientali del nostro territorio.
Ringraziamo Pier Giulio e Mimmo per aver colto, nei loro interventi, i problemi di fondo che hanno sempre impedito, alla Comunità di Stigliano, di manifestare un qualsivoglia interesse  per la salvaguardia del proprio patrimonio artistico. Confermando, ancora una volta, la colpevole, fatalistica rassegnazione delle inermi istituzioni locali e dei cittadini residenti.
Per quanto ci riguarda, con il nostro video abbiamo voluto dare una piccolo contributo al dibattito in corso, pur sapendo che il problema è grave e complesso, e certamente non si risolve con gli appelli. Perciò facciamo questa ulteriore denuncia, convinti come siamo che ci sia bisogno, a Stigliano, di un lavoro continuo,  tenace e competente, per ottenere qualche risultato positivo.
Indubbiamente, e lo diciamo con molta amarezza, il Comune di Stigliano  è certamente quello che più di tutti, negli ultimi sessant’anni, si è adoperato per devastare e stravolgere il suo tessuto urbanistico, fino al   punto da essere riuscito a distruggere quasi completamente la sua memoria  storico/artistica.

Chi gira per l’Italia e per i Comuni della stessa Basilicata, non trova riscontri a tanto scempio, forse nemmeno in quei Comuni dove il “sacco urbanistico” degli anni ’50 e ’60 spianò la strada alla grande speculazione edilizia e all’abusivismo. Evidentemente, pur con sfumature diverse, altrove l’idea della salvaguardia della grande ricchezza storico/artistica dei Comuni è andata consolidandosi , facendo da argine all’incuria pubblica e alla speculazione privata.
Ciò è stato possibile grazie a fattori culturali, a un tessuto sociale civile, a un’opinione pubblica attenta e al contributo dell’associazionismo ambientale e culturale.
Qui da noi, invece, sembra che siano passati i barbari. Anzi, pare che non se ne siano più andati.
Non a caso, nonostante gli scempi del passato, siamo ancora qui a discutere di un’altra emergenza che riguarda, questa volta, la probabile demolizione della settecentesca chiesa di San Vincenzo.
Dunque, non di distrazione, o di una “maledizione”, si tratta,  ma di un ben collaudato “modus vivendi” che ha quasi capovolto l’idea stessa di bene pubblico e di salvaguardia della ricchezza collettiva, a favore del più pratico e egoistico “tornaconto personale”.
Senza scomodare il “familismo amorale” di Edward Banfield, potremmo a questo punto cercare di capirne le “ragioni” (se mai ve ne possono essere) per poi tentare di invertire una tendenza che sembra, ormai, non avere più fine.

Certamente il fenomeno è complesso e non può essere affrontato con leggererzza. Però, rifacendoci  almeno alla storia amministrativa degli ultimi sessant’anni, possiamo con relativa certezza individuare alcuni dei fattori che hanno favorito questo atipico comportamento “distruttivo”.
Innanzitutto va ricordato che il Comune di Stigliano, dall’Unità d’Italia in poi,  ha conosciuto una costante crescita demografica passando dai circa 5mila abitanti del 1861 ai 10mila del 1961. Ovviamente questa crescita era dovuta a una notevole dinamicità economica che aveva i suoi punti di forza nell’agricoltura, nella zootecnia e nell’artigianato.
In secondo luogo va richiamata la difficile situazione idrogeomorfologica del Comune, situato a 909 metri di altitudine, su un crinale argilloso del monte Serra, e per giunta soggetto a fenomeni franosi di vasta entità, che  hanno portato alla emanazione di un Decreto Ministeriale che individua quasi tutta la zona del vecchio centro storico, come “zona soggetta a trasferimento dell’abitato”.
Questi due elementi, l’aumento della popolazione e la scarsità di aree edificabili  sovrapposti alla crescente pressione demografica degli anni del boom economico (anni ’50 e ’60) che alimentava   anche a Stigliano la crescita di domanda di nuovi alloggi di edilizia pubblica e privata, hanno determinato quella miscela di “ingovernabilità” che solo una coraggiosa e lungimirante scelta di pianificazione urbanistica poteva evitare. Ma come e dove doveva espandersi un comune a corto di aree edificabili? Era immaginabile uno sviluppo urbanistico diverso?
Per gli amministratori di allora, porsi coraggiosamente queste due domande avrebbe quantomeno significato avere la capacità di leggere la realtà, di interpretarne i bisogni, di cercare soluzioni. Di trovare alternative. E invece, non è andata così.
Ai danni già notevoli prodotti nei secoli passati, al nostro patrimonio urbanistico e storico/artistico, da frane e terremoti, dagli anni ’50 in poi si sono aggiunti anche quelli di una cattiva politica amministrativa che ha utilizzato la gestione urbanistica come strumento “regolatore” di interessi clientelari. Non avendo la capacità di pensare in grande, attraverso norme e regolamenti di tutela effettiva del patrimonio artistico residuo, e non avendo nemmeno il coraggio di ricercare soluzioni nuove al fabbisogno edilizio, attraverso l’individuazione di un alternativo polo di espansione urbanistica, le amministrazioni che si sono avvicendate in quegli anni, hanno innescato un maccanismo di lento e tacito abusivismo per cui lo sviluppo edilizio del Comune di Stigliano è stato caotico,  incontrollato, disordinato e fuori da ogni regola di pianificazione e di decoro. Caso unico in Italia, forse, si è costruito e ricostruito praticamente sul vecchio centro abitato. Insomma, invece di studiare e approvare regole di prescrizione vincolanti per la tutela del centro storico e di tutto il patrimonio storico/artistico, attraverso una pianificazione che privilegiasse obbligatoriamente la riproposizione di “schemi compositivi” propri della tradizione locale (composizione delle volumetrie, coperture a tetto, dimensioni e foggia dei balconi, utilizzo di materiali caratteristici locali, intonacature con malte non cementizie, piano colore ecc.) si è preferito dare libero sfogo agli egoismi clientelari e anche professionali. In pratica, in pochi decenni c’è stato un boom di sopraelevazioni, di demo-ricostruzioni e di ristrutturazioni selvagge che hanno portato alla distruzione di ogni testimonianza urbanistica antica. Chiese, cappelle, palazzi storici, masserie, facciate, portali, balconi, stemmi,   ringhiere in ferro battuto, embrici, archi, volte, camini, lastricati in pietra, tutto è stato travolto dalla ventata della modernità, delle sopraelevazioni (3, 4 o anche 5 piani) delle superfetazioni, sostituendo gli antichi manufatti con  marmi, intonaci in calce cementizia, tufo, asfalto, tegole, impermeabilizzazioni con fogli bituminosi, infissi in anticorodal, piastrelle,  terrazzi in lamiera e coperture con manti sintetici, camini in acciaio, materiali incongruenti, facciate degli edifici a più trattamenti di finitura e di colorazione, garage e cantine scavati sotto il livello stradale, coperture a falde spioventi inverse, stravolgimenti dei profili architettonici, ecc. ecc., secondo la più bizzarra e imprevedibile fantasia di proprietari e tecnici.
La responsabilità maggiore di tutto questo scempio è senz’altro addebitabile alle amministrazioni comunali, cha atttraverso questa via hanno barattato l’acquisizione del consenso personale e partitico, in cambio di un  “tollerante” e complice lasciar fare in campo urbanistico. Basti solo pensare allo sciagurato utilizzo dei fondi del terremoto (decine e decine di miliardi spesi) senza aver prodotto nessuna utilità collettiva, un’opera pubblica, o un serio piano di recupero per comparti.
Inoltre, c’è di peggio che quasi tutte le opere pubbliche progettate e dirette dal Comune, si sono giustamente caratterizzate per  “disattenzioni” e “stravolgimenti urbanistici” anche gravi, così come è stato giustamente ricordato negli appelli dell’Arch. Montano e del Prof. Cecere.
Per finire, non va però nemmeno sottaciuta la parallela corresponsabilità dei cittadini,  che hanno sempre pensato solo ai propri interessi personali, e dei  tecnici, dei  professionisti del settore e delle maestranze, che pur di andare incontro alle aspettative dei privati committenti, o del gestore pubblico, hanno messo da parte la deontologia professionale, dando un notevole contributo non solo al dilagare  dell’abusivismo pubblico e privato, ma anche al consolidamento di quella tipica mentalità assistenziale per cui il bene pubblico non conta, ma contano, invece, il proprio orticello e le  “amicizie” influenti.
Quando, in una comunità, il connubbio di interessi tra la politica e gli affari, tra il potere  e il consenso, intacca tutti (amministratori, cittadini, professionisti, categorie e ceto dirigente) allora non vi è scampo, può succedere e succede di tutto. Perchè, in fondo, di fronte a questa dilagante mentalità del compromesso e del tacito accomodamento,  nessuno si indigna più di niente, nessuno è più capace di protestare, nessuno si crede veramente libero, fino al punto di denunciuare, ove occorra, le illegittimità e gli abusi rilevati.
E’ amaro raccontare queste verità, ma la storia dei nostri scempi urbanistici è figlia dei nostri peccati, delle nostre cattive abitudini, della nostra cultura fatalista e miope, che affonda le radici in quel malcelato bisogno di “protezione e di sottomissione” tipico di una cultura contadina debole, rozza e arretrata. Diciamolo, insomma, non siamo un popolo orgoglioso e colto, altruista e solidale, impegnato e intraprendente. O perlomeno non lo siamo più. A dispetto delle tante testimonianze che hanno segnato la nostra gloriosa storia remota.

Adesso che ci risvegliamo da un brutto sogno e ci accorgiamo che le stradine, i vicoli, le chiesette, le case dei nonni, i palazzi, i fontanili, le botteghe, non ci sono più, e nessun altro può  testimoniarci chi siamo e da dove veniamo, che fare??
Certo è gratificante e doveroso lanciare appelli purificatori per salvare San Vincenzo (l’abbiamo fatto pure noi di CinicoFilm53) ma è come lanciare un grido di dolore di fronte a un male che ci sovrasta. Perchè, davvero, se non si inverte una mentalità, se non si spezza o si sconfigge quel blocco  culturale che fa assurgere a stile di vita il classico mercimonio di “favori in cambio di voti”, non ci sarà appello che possa in qualche modo invertire la tendenza.
Allora, sarebbe necessario, a nostro avviso, unire le forze, coinvolgere tutti quei cittadini ancora liberi e sensibili,  organizzarsi in maniera permanente, dando vita a una vera e propria “resistenza” intorno al tema non della sola salvaguardia della chiesa di San Vincenzo, ma di tutto quel poco o tanto che resta del nostro irrinunciabile e irripetibile patrimonio storico, artistico e ambientale. Perchè, ancora oggi, sotto gli occhi di tutti (o almeno di quelli che vogliono vedere) l’ostinato stillicidio  di abusi e di lento depauperamento del territorio  ancora  continua,  viene  favorito e  tollerato dagli amministratori, da chi dovrebbe controllare e per ultimo dai cittadini distratti, con la risibile e complice scusa di  chiudere un occhio e “lasciar fare” a chi  ha ancora voglia di fare o disfare qualcosa, in nome della accomodante, miope e disastrosa cultura familistica …… e forse anche affaristica.
Noi siamo pronti, e insieme a tutti voi vorremmo intraprendere un nuovo cammino di “attenzione e di partecipazione”, facendo della chiesa di San Vincenzo il simbolo di una battaglia culturale e ambientale. Vogliamo organizzarci?

Stigliano 29 Giugno 2012

Gazie per l’attenzione, gli amici di CinicoFilm53

 

Stigliano - Video/Inchiesta Chiesa di San Vincenzo "Non Cancelliamo La Nostra Storia"

 

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