Un San Valentino rosso sangue

Odio, passione, tradimento, vendetta ed efferati omicidi, condensati in un cocktail di forti emozioni, rievocano sullo schermo con ironia e livore l’attimo che ha cambiato per sempre la vita di molti sodalizi sentimentali. L’altra faccia dell’amore messa in scena dal cinema rivisitata del nostro concittadino Giuseppe Colangelo. Clyde (Warren Beatty) mordicchia spensierato una mela al volante di un’automobile rubata con accanto una sorridente Bonnie (Faye Dunaway). Lui ha un paio di occhiali da sole con un’unica lente, come una sorta di pirata dell’epoca moderna. Lei è radiosa. All’improvviso vedono lungo il ciglio della strada, a pochi passi da un camioncino in panne, un uomo gesticolare invitandoli a fermarsi. Il temuto bandito scende con passo scanzonato per soccorrerlo. Dal fondo della strada sopraggiunge gracidante un vecchio automezzo, spaventando uno stormo di uccelli che dalla boscaglia adiacente spicca il volo. Segue un attimo di silenzio. L’uomo goffamente si stende per terra sotto il proprio autocarro. Clyde in un primo momento sorride stupito del gesto inconsulto di quest’ultimo. Bonnie cambia subito espressione. Clyde ritorna alla realtà. Ma ormai è troppo tardi. Le raffiche di mitra dei poliziotti in agguato fra i cespugli crivellano di colpi la coppia criminale più ricercata d’America. I loro corpi sbrindellati dalle pallottole si accasciano al suolo simili ballerini allo stremo. Con questa danza di morte si chiude il celebre film di Arthur Penn Gangsters Story (1967), dedicato alle spericolate gesta compiute nei primi anni Trenta del secolo scorso da Bonnie Elizabeth Parker e da Clyde Chestnut Barrow. Lei aveva 23 anni, lui 25. Un grande amore che trova il suo collante nella violenza e nell’incoscienza di esercitarla. Per dirla con le parole di Morando Morandini, i due sono: «… immaturi, disadattati, ribelli. Bonnie e Clyde si esprimono con una violenza frenetica e un’esuberanza fisica che è anche un allegro gioco di atti e gesti… il regista non segue la tradizione romantica delle coppie ribelli e disperate e non concede ai suoi personaggi la consapevolezza della rivolta: il loro resta gioco, tragico ma gioco.»
L’amore, l’affetto e la complicità fra i partner, al pari della competizione, la crisi e la fuga dai problemi insiti dello stare insieme, costituiscono una delle argomentazioni più dibattute del vivere quotidiano. Ritratto umano, psicologico e sociale, posto sotto la lente d’ingrandimento dalla settima arte, la quale nel raccontare gioie, dolori e perversioni del rapporto a due, confeziona una serie di film a tinte decisamente forti. L’amour fou in celluloide, con il suo carico di fascino e perdizione accentuato dalla capacità seduttiva di star di prima grandezza, attinge a piene mani dalla realtà, vedi Bonnie & Clyde, e dalla letteratura. Ne è un esempio Le dernier tournant  (1939) di Pierre Chenal, con Michel Simon, Fernando Gravey  e Corinne Luchaire,

Il postino suona sempre due volte
Il postino suona sempre due volte

adattamento francese per il cinema del romanzo di James Cain «Il postino suona sempre due volte». La vicenda di una giovane donna sposata con un uomo più vecchio la quale, diventata l’amante di un vagabondo, induce quest’ultimo ad uccidere il marito, è oggetto di tre remake. Ossessione (1942) di Luchino Visconti, con Clara Calamai e Massimo Girotti, e i film omonimi diretti da Tay Garnett nel 1946, al cui centro del plot spiccano Lana Turner e John Garfield, e da Bob Rafelson nel 1981, interpretato dai focosi Jessica Lange e Jack Nicholson. Un soggetto che, soprattutto per quanto riguarda il lungometraggio del grande regista milanese, assume un valore fondamentale per la settima arte italiana e non solo. Siamo nel 1942, e il nostro cinema è ancora intriso dai codici della propaganda del regime fascista del cosiddetto genere “dei telefoni bianchi”, quando «… un gruppetto di giovani, capeggiato da Luchino Visconti, stava creando il ‘suo’ film, decisamente coraggioso, non conformista, polemico addirittura» si, legge in un articolo del 1957 pubblicato su «La Stampa» a firma di Mario Gromo. «…. Non begli eroi, non ambienti lindi, non un igienico benessere, e altre rime obbligate dei film ufficiali e ufficiosi d’allora; ma un brutale fatto di cronaca, una cronaca di foia e di delitto, e tratta (delitto nel delitto) da un romanzo.» Una pietra miliare, insomma, capace d’aprire il passo al neorealismo, destinato a cambiare per sempre la storia del cinema. Tuttavia, è la mano di Rafelson, liberata dai lacci censori che avevano imbrigliato in precedenza i suoi colleghi, a tratteggiare sullo schermo in maniera esplicita l’aggressiva e rude sensualità della turbolenta relazione fra gli amanti assassini partoriti dalla penna di Cain.

Profundo carmesi
Profundo carmesi

La raccapricciante storia vera di una coppia criminale americana, soprannominata dalla stampa “Gli assassini dei Cuori Solitari”, che nell’immediato Secondo dopo guerra attira con annunci pubblicati nelle rubriche della ‘posta del cuore’ donne benestanti, sole e di mezza età, per derubarle e poi ucciderle, dà spunto a due trasposizioni cinematografiche: I killers della luna di miele (1970) di Leonard Kastle e Profundo carmesi (1996) del messicano Arturo Ripstein. La farneticante passione tra l’obesa Martha Beck e Raymond Fernandez ha inizio quando la donna per gelosia avvelena una rivale, dando inizio così a una catena di orrendi omicidi. Arrestati e processati per 17 delitti i due sono condannati alla sedia elettrica e giustiziati a Sing Sing nel 1951.
Altrettanto sconcertante è Natural Born Killers (1994) diretto da Oliver Stone, in cui Woody Harrelson e Juliette Lewis impersonano due giovani criminali che agiscono con fredda determinazione, lasciandosi dietro un fiume di sangue. Il loro agire impulsivo e spietato, tuttavia, grazie alla morbosa attenzione dei mass-media, per assurdo finisce con il convertire i due assassini in simboli da ammirare. Un’altra coppia di celebri criminali non dimenticata dal cinema è quella dei mitici Diabolik ed Eva Kant, scaturiti dalla fantasia delle sorelle Angela e Luciana Giussani. Il salto dal fumetto al grande schermo lo compiono grazie a Mario Bava, il quale nel 1968 dirige il film omonimo, con John Phillip Law nei panni dell’inafferrabile genio del male in calzamaglia nera e la bionda Marisa Mell nelle vesti della bellissima compagna. Film all’epoca sottovalutato, divenuto però in seguito una vera chicca fra i cultori del cinema minore di quegli anni.

Crimen perfecto
Crimen perfecto

Da non perdere, infine, Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante (1989) del sempre raffinato Peter Greenaway, in cui si mescolano adulterio, assassinio e antropofagia, e la grottesca quanto esilarante commedia spagnola Crimen perfecto – Finché morte non ci separi (2004) diretta con mano felice da Alex De La Iglesia. L’idea di eliminare un collega per avanzare di grado nel reparto abbigliamento di in un grande magazzino, segna l’inizio del precipizio in cui casca il donnaiolo Rafael (Guillermo Toledo). Ma l’assassinio non è il suo mestiere. Così, a soccorrerlo, è Lourdes (Mónica Cervera), una donna imprevedibile quanto sorprendente, lontana anni luce dai canoni della bellezza patinata e da lui sempre ignorata. Il loro incontro dà vita a una sequenza di bugie, ricatti e rocambolesche situazioni al limite dell’assurdo.
Una curiosità. Fra le molte star femminili a cimentarsi in questi panni inquietanti, anche l’algida e svampita Marilyn Monroe la quale, in Niagara (1953) di Henry Hathaway, impersona la torbida e provocante Rose Loomis pronta a uccidere il marito con l’aiuto dell’amante. Un ruolo che rivela al mondo una Monroe inedita, una dark lady dallo spiccato erotismo, inimitabile quando compare lasciva in un provocante abito rosso vermiglio.

Giuseppe Colangelo

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