Quel caro «strano» prete col tricorno

Ci ha lasciati, all’età di 82 anni, don Mimì Cecere. Non appena dalla “sua” Stigliano, dove ha trascorso gli ultimi anni di vita, mi ha raggiunto la notizia della scomparsa, mi sono balenati nella mente sprazzi di ricordi, disordinati ma vivi, legati a un rapporto che è durato circa sessant’anni.
Innanzi tutto, hanno iniziato a danzare davanti ai miei occhi le immagini di me ragazzino che, con tanti altri miei coetanei, lo seguiva, entusiasta, nelle escursioni sul Monte Serra, dove lui, ancora giovane seminarista, amava organizzare durante le vacanze estive avvincenti cacce al tesoro, con il beneplacito del parroco don Giacomo Polidoro, per il quale nutrì sempre una stima affettuosa e profonda.

don Mimì Cecere, il primo a destra
don Mimì Cecere, il primo a destra

Poi, con un salto di molti anni, sono riemersi i lunghi conciliaboli telefonici per mettere a punto gli orari scolastici: risultavano estenuanti per la ricerca difficile di soluzioni, che riuscissero a conciliare una corretta attività didattica con le esigenze di tanti insegnanti, spesso impegnati in scuole diverse e lontane fra loro. Quando, trovata la quadratura del cerchio, ci rilassavamo, seguivano, quasi sempre, lunghe e piacevoli conversazioni su vari argomenti, che si protraevano fino a tarda notte.

Si finiva, spesso, col parlare di Stigliano, alle cui vicende egli era sempre interessato, ma con doloroso distacco. Non aveva mai cancellato, infatti, l’amarezza e il rammarico di essergli stato impedito dalla gratuita malevolenza di pochi di diventare parroco della Chiesa di S. Antonio dopo la morte dell’amato don Giacomo. Da stiglianese non mancò, ad esempio, quando gli fu richiesto un parere sulla intitolazione della nuova chiesa della Rotonda, di avanzare la proposta ben argomentata del nome di San Giovanni Bosco, per il quale aveva, e non a caso, una grande venerazione. Ma non insistette più di tanto, quando ci si orientò verso altre ipotesi.
Ho ricordato con grande piacere, poi, gli incontri, che furono molto frequenti, a Tricarico o altrove, nel periodo dell’episcopato del mai dimenticato vescovo Francesco Zerrillo. Indimenticabili, fra gli altri, i tre giorni trascorsi insieme a Villa d’Agri per un importante convegno diocesano, quando, dopo le quotidiane attività che ci vedevano coinvolti nello stesso gruppo di lavoro, amabilmente ci si intratteneva con don Alberto a raccontare ognuno di sé e a parlare di tante cose diverse.

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Ma anche la commemorazione a Gorgoglione del trentesimo anniversario del suo sacerdozio con una solenne e commovente cerimonia religiosa, cui seguì una vera e propria festa di popolo nella tensostruttura, a testimonianza dell’affettuosa benevolenza e della stima sincera, che aveva saputo guadagnarsi nel suo paese di adozione.
E ancora la sua presenza, da me tanto più apprezzata, perché ne comprendevo il significato e immaginavo lo sforzo da lui sostenuto per superare la sua proverbiale pigrizia ed impedimenti di altra natura, alla cerimonia serale, in cui dall’Associazione stiglianese dell’Anspi mi fu consegnato il Premio “don Alberto Distefano” per la Festa del Bentornato.
Non posso dimenticare, infine, il ritorno di don Mimì, in macchina con me, a Gorgoglione, per la prima volta (non so se anche l’ultima), dopoché aveva lasciato l’incarico di parroco per sopraggiunti limiti di età. Fu in occasione della presentazione del mio saggio su padre Giuseppe De Rosa, un altro confratello, che egli semplicemente adorava. Anche in questo caso fece violenza a se stesso, perché era riluttante a tornare nei posti in cui era vissuto, soprattutto a Gorgoglione, dove aveva speso la parte più lunga e migliore della sua vita, diventando una figura carismatica della comunità.
Dopo la fantasmagoria di ricordi, ho ripensato anche ai suoi atteggiamenti, che sarebbero potuti apparire a prima vista eterodossi ed eccentrici. Come, appunto, l’uso imperterrito del tricorno e dell’abito talare tradizionale, quando anche i preti più anziani si erano ormai decisi a vestire il clergyman. Singolare era, infine, il suo linguaggio diretto, immediato e colorito, che talvolta diventava mordace e corrosivo, ma rivelava in fondo una bonomia ed un’arguzia intrise di affetto, di vicinanza e di condivisione. E, soprattutto, era la lampante testimonianza di una grande umanità e di una rara spiritualità, come hanno potuto sperimentare tutti coloro che hanno avuto il privilegio di conoscerlo.

V. Angelo Colangelo

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