OTTANTA MA NON SI VEDE. SARÀ VERO? il libro-diario di Vincenzo Schettino

di Sebastiano Villani

Devi aver avuto fortuna nella vita, o, come umilmente scrive nel suo “diario” fresco di stampa il prof. Vincenzo Schettino, una «dea benigna» deve averti sempre accompagnato nei tuoi passi se, ancora in perfetta salute, a ott’anni appena suonati, ti puoi ritrovare, a sorpresa, festeggiato, il 20 novembre 2019, dalla comunità scientifica della tua città e del tuo Paese come uno dei più illustri esponenti chimici-fisici italiani. Di questo e molto altro ancora il nostro concittadino parla in questo piccolo libro. Per esempio, tra il serio e il faceto, della fortuna.

Credo sia la saggezza popolare della Stigliano delle sue origini lucane a ispirargliele, perché di uno come lui, che sin da bambino ha saputo/voluto far tesoro dei suoi molti talenti, noi qui diciamo che ha tenuto la capa bone ma, aggiungendo, ca ie’ state le Potre Aterne ca l’ava ‘ddate (che è stato il Padre Eterno ad avergli dato buon carattere, buona disposizione d’animo, tenacia e simili). Insomma, al netto del suo impegno e della sua determinazione personali – che Schettino è pronto a mettere modestamente tra parentesi – deve essere stato davvero importante per lui l’affetto e il sostegno di familiari, amici e maestri, del quale si è sentito circondato per tutta la vita. A partire da quello delle elementari, don Giaccheine Longhe, il primo a far intravedere al padre, sarto, come possa essere possibile per suo figlio Cenzino un destino professionale diverso da quello modesto, benché onorato, di piccolo artigiano di paese.

Vincenzo Schettino col padre Prospero

A beneficio dei lettori più giovani, Schettino ricorda come l’unico modo per oltrepassare le colonne d’Ercole della licenza elementare era frequentare le scuole dei religiosi, almeno per i proletari come lui, come me, come tanti dei nati a Stigliano tra la fine degli anni Trenta e la fine degli anni Quaranta del secolo scorso. Nessuno li ha mai contati veramente, ma sono sicuramente tanti i ragazzini che, a quei tempi, con il loro spartano corredino di maglie, mutande e lenzuola (quelle di Vincenzo erano cifrate “57”, quelle di chi scrive “50”) partivano da Stigliano per questo tipo di scuole, pochi per farsi davvero preti, molti p’arrobbò le stodie (per “rubare gli studi”) come coloritamente, e onestamente, si diceva allora. Per la semplice ragione che le scuole medie (non ancora la “scuola media unica” della riforma del 1962) a Stigliano arriveranno tardi, annunciate trionfalmente dalla trombetta di Louecie le ‘bbonnetore (Luigi il banditore), come mi ha raccontato un amico nato alla fine del 1945, ma iscritto dai genitori all’anagrafe solo nei primi giorni del 1946 nella speranza di ritardargli di un anno la leva militare nel caso dello scoppio malaugurato di un nuovo conflitto mondiale. Con l’arrivo di questa istituzione tutto cambia, e anche chi, come lui, aveva “perso” tre anni frequentando le classi VI, VII, e VIII della “scuola di avviamento professionale”, può proseguire finalmente gli studi, al pari dei ragazzi indirizzati sulla strada delle scuole dei preti, che possono in più assicurare ai volenterosi e meritevoli la possibilità di frequentare anche qualche anno di scuola secondaria superiore dopo la III ginnasiale, come allora si chiamava quella che oggi diciamo III media.

Vincenzo Schettino, undicenne, in una camerata del Sozi Carafa dei gesuiti di Vico Equense

I barnabiti soprattutto, seguiti a ruota dai gabrielisti, e perfino da intraprendenti suore dell’ordine delle Filippine hanno continuato, fino alla metà degli anni Sessanta, a visitare ogni estate i nostri paesi per reclutare “vocazioni”. La scuola frequentata dal piccolo Vincenzo,   è, invece, il Sozi Carafa dei gesuiti di Vico Equense, della quale Schettino ha un ricordo ancora vivo e fresco: dalla terrazza con bella vista sul Golfo di Napoli, ai temuti-amati professori, agli indimenticati compagni di scuola, uno dei quali, Berardo, marsicano, egli riesce a rintracciare, miracolosamente, dopo settant’anni, scoprendo che da pensionato si è fatto zampognaro per diletto. Incredibile, e non sai se ridere o piangere, il ricordo di Schettino della propria espulsione dal collegio (di Lecce) non per cattiva condotta ma per una certa precoce irrequietezza intellettuale, sospetta agli occhi dei suoi superiori, con l’appendice della storia di un lungo viaggio, di notte, da solo, in treno, di uno Schettino poco più che quattordicenne. Imbarcato come un pacco postale per Napoli, dove giunge una mattina alle cinque per cercare, come in un racconto del Cuore deamicisiano, una sua zia Margherita, uno dei tanti travestimenti della sua benigna dea fortuna. Ma a Napoli egli resta lo spazio di un giorno, perché era come un destino che Schettino dovesse completare i suoi studi ginnasiali a Firenze, diventata da allora la sua seconda patria, mentore l’accetturese colonnello Pesce, l’autore, lo si ricorda per i più giovani, della Pacchianella alla fontana, in bronzo, dei giardini di via Cialdini a Stigliano. Ed è a Firenze che, un anno fa circa, per iniziativa del rettore dello storico Ateneo cittadino, gli viene tributato quel doveroso omaggio al suo lungo e fecondo impegno di studio, ricerca e insegnamento cui si è fatto cenno all’inizio, un cursus honorum già punteggiato di premi e riconoscimenti straordinari: da quello del Presidente della Repubblica, assegnato da Ciampi, nello stesso anno, a due monumenti della musica italiana nel mondo (il direttore d’orchestra Claudio Abbado e il violinista Piero Farulli del leggendario Quartetto Italiano) a quello più modesto, ma a cui Schettino pure tiene molto, del «Bentornato» assegnatogli nell’anno 2006 dal suo Comune natio.

Vincenzo Schettino insignito del “Premio del Presidente della Repubblica per la Ricerca scientifica” da Azeglio Ciampi (2005)

Tra le pagine più belle del suo “diario”, insieme con quelle che ricostruiscono prima la sua infanzia stiglianese e poi i suoi anni di “pretino“ (nonché di ammirato centravanti) a Vico Equense, ci sono quelle dove Schettino ricorda come egli abbia saputo cercarsi, presto e assai audacemente, i suoi maestri del dopo-laurea, quelli che hanno impresso la svolta decisiva ai suoi interessi di ricerca e al suo futuro professionale, perché alla sua esistenza di uomo, padre e marito la sua bella svolta glie l’ha impressa la professoressa Margherita Jasink, sua moglie. È stata lei, qui sotto con la figlia Giulia, a ricostruire la vasta rete di colleghi e amici con i quali generosamente condividere la gioia della festa organizzata per gli ottant’anni del marito dall’Ateneo fiorentino.

Vincenzo Schettino con la moglie A. M. Jasink, e accanto con la figlia Giulia

Inutile dire come questo “diario” sia solo una piccola parte dello sperimentalismo che negli ultimi anni ha spinto Schettino, oltre i confini della comunicazione scientifica, a pubblicare apprezzati versi e a interrogarsi sui rapporti tra scienza, arte e letteratura (Vincenzo Schettino, Scienza e arte. Chimica, arti figurative e letteratura, Firenze University Press, 2014; La decima musa. Poesia e scienza, Firenze University Press, 2016). Ecco perché, in appendice a questo libro, possiamo trovare, non inattesa, una sua Lectura Dantis. Una bella prova sollecitatogli dal suo amico dantista Donato Massaro, uno dei tanti nomi della diaspora intellettuale lucana che spuntano fuori, qua e là, dalla penna dei suoi ricordi. Perché come l’esperienza di collegiale gli fa, precocemente, conoscere tante altre giovani e vive intelligenze disseminate tra le sperdute piccole patrie del nostro Mezzogiorno interno, così la sua lunga esperienza universitaria e accademica è stata di tanto in tanto arricchita da incontri, in Italia o all’estero, con corregionali, quando non proprio dei compaesani, che, come lui, hanno saputo caparbiamente farsi strada nel mondo della ricerca italiano, riuscendo ad evitare con successo le inevitabili «imboscate», insomma a superare vittoriosamente «battaglie e tempeste (accademiche)» (p. 99).

Il “diario” di Schettino, improntato per lo più al sorriso e qua e là anche all’auto-ironia, si chiude, a sorpresa in una tonalità minore, quella del rimpianto e della tristezza per gli affetti familiari perduti, quello dei genitori ma anche dei nonni e persino dei bisnonni: un dagherrotipo incancellabile di quella «umile Italia» di cui Vincenzo si dice un figlio orgogliosamente grato. Grato soprattutto a quell’uomo, «fortissimo» anche nel corpo quale è il padre nel ricordo del figlio, che ha pensato bene di investire in educazione «anche in un contesto in cui tutti lavoravano e le condizioni economiche della famiglia non erano proprio floride». Non sorprende, dunque, che per uno come Schettino, educatore doc, la scuola sia stata tutto, tutta la sua vita e tutta la sua famiglia. Così come non sorprenderà che possa essere stata proprio la scuola primaria di Stigliano, allora diretta dallo scrivente, a sentirsi in obbligo di dare l’annuncio, sul suo giornalino scolastico, della nomina, nel 2009, di uno stiglianese, il prof. Vincenzo Schettino, ad Accademico dei Lincei: un onore riservato, dal 1950 al 1980, già ad un altro nostro concittadino, il barnabita Vincenzo Cilento, grecista.

Ai loro nomi sarebbe doveroso aggiungere quello di un altro linceo, il veneziano Francesco Bruni, ormai stiglianese di adozione. Al nostro paese, dove regolarmente ritorna da almeno dieci anni, lo lega il comune affetto per Rocco Montano, suo maestro elettivo, concretizzatosi in un impegno sistematico di ripubblicazione delle sue maggiori opere con editori nazionali di prestigio come Olschki, Marsilio o Salerno. Dal che si può vedere quanto Stigliano sia, oggi più ancora che in passato, altamente rappresentata nella più antica e conosciuta Accademia italiana. Gli altri lucani annessi tra i Lincei, mi dicono, sono stati solo Francesco Sassi, geologo materano scomparso da qualche anno, e Francesco Mauro, un chimico di Calvello, assurto a linceo alla fine dell‘Ottocento.

Sebastiano Villani

(Centro Studi Rocco Montano)

LEGGI ANCHE: Articoli Prof. Schettino

www.roccomontano.it

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