Ogni mattina mi sveglio stiglianese

Parafrasando un recente scritto del giornalista e scrittore Giorgio Torelli, immarcescibile parmigiano trapiantato a Milano da mezzo secolo, che da tempo mi tiene compagnia con la sua incantata e incantevole scrittura (imperdibili gli appuntamenti con le sue rubriche domenicali, un tempo su Il Giornale montanelliano, oggi su La Gazzetta di Parma, e indimenticabili le pagine del suo affascinante romanzo La Parma voladora), non posso non ammettere che io «ogni mattina mi sveglio stiglianese».
Affermando ciò, non voglio certo peccare d’ingratitudine verso Parma, la città che ora mi ospita, né essere irrispettoso nei confronti del caro don Lisander, quando ne I promessi sposi annota che la patria è dove si sta bene. Confesso semplicemente un sentimento insopprimibile, cioè che da un decennio le grigie giornate nella città ducale si colorano di fatti, cose, persone che, legate al «paese», hanno riempito di senso la mia vita. Rendendola, come la vita di ciascuno, un unicum irripetibile.
Non di rado ritornano le immagini, non ancora sbiadite, dei giochi frenetici che riempivano di epiche grida il cielo della «Villa», incendiato da rossi struggenti tramonti, mentre le strade si popolavano di contadini che tornavano stanchi e silenziosi dai campi con asini, pecore, capre.
Gli artigiani, intanto, chiudevano le botteghe, cercando di dare ristoro alle quotidiane fatiche nelle cantine di zio Peppe Oramai, Frǝséjǝnǝ o z’Attonì. Non senza aver prima provveduto di passare dal compar Nicola per l’acquisto di qualche “alfa” o “nazionale semplice” o “mezzo toscano”, rigorosamente a credenza, cioè con pagherò basati su comprensione e fiducia indefettibili.
Stigliano, Villa Marina negli anni '50, foto di Fosco MarainiLe donne nel vicinato, a loro volta, congedandosi fra loro e sciogliendo i raduni pomeridiani scanditi da fitti chiacchiericci, rientravano in casa a preparare cene frugali. Finiva così anche la loro giornata, iniziata all’alba presso il pubblico fontanile per l’approvvigionamento idrico, che spesso comportava resse e risse furibonde, con alterchi e imprecazioni capaci di coinvolgere avi e discendenti dei contendenti fino alla settima generazione. Vittime sacrificali i barili, destinati non di rado a un ricovero d’urgenza nella vicina “clinica” di zio Salvatore e zio Gerardo Miraglia, che provvedevano alle cure del caso, se il danno non era irreparabile.
Per certi versi un villaggio leopardiano, insomma. Vitale ed operoso, per tutti gli anni Cinquanta, e pieno di gente, con un picco di 9925 abitanti nel 1961. Pur se afflitta da non pochi e gravi problemi, primo fra tutti l’alto tasso di disoccupazione, che la sospirata assegnazione delle terre in seguito alla riforma agraria non era riuscita a risolvere, Stigliano legittimamente vantava il ruolo di capitale della montagna materana.
Grazie all’effervescenza di attività artigianali e commerciali e alla dotazione di uffici finanziari e giudiziari quotidianamente attraeva un gran numero di persone dai paesi vicini. Il suo ruolo centripeto e il suo prestigio aumentarono poi con la istituzione dell’ospedale e delle scuole medie superiori, che svolsero un’importante funzione sociale, andando incontro ai bisogni delle popolazioni montane, eccessivamente penalizzate dalla mancanza di una soddisfacente rete viaria.
Ancora alla fine degli anni Sessanta Matera poteva essere raggiunta in non meno di tre ore ed oggi la situazione è solo parzialmente migliorata, anche a causa delle frequenti e rovinose frane, che mettono a repentaglio lo stesso abitato, minacciato anche nei quartieri di recente costruzione.
Il doloroso esodo di oltre 1500 persone, che nei primi anni Sessanta andarono a cercare lavoro nel Nord dell’Italia, o in Germania e in Svizzera, attenuò ma non spense la vitalità della comunità stiglianese.
Fu allora che io, quattordicenne, costretto alla lontananza in un lontano collegio toscano degli impagabili Padri Scolopi, come tanti miei coetanei soffrii per la prima volta il senso dello spaesamento e vissi con pienezza le «feste del ritorno» a Natale e nelle vacanze estive. E incominciai ad assaporare il pane della nostalgia, che non smisi più di mangiare, neppure quando ormai ero tornato a vivere a Stigliano. Perché la nostalgia, come ricorda l’antropologo Vito Teti, nei paesi segnati dall’emigrazione finisce per contagiare sia chi parte sia chi rimane ed evoca sempre «esplosioni e frantumazioni di tempi e di luoghi, lacerazioni e dispersioni individuali e collettive, partenze, fughe, ritorni, abbandoni, perdite, rinascite».
Dopo gli studi liceali e universitari arrivarono, dunque, gli anni dell’«appaesamento», pieni di sane e gratificanti relazioni dentro e fuori l’ambito familiare, favorite anche dalla mia attività professionale di insegnante ad Aliano, dove trascorsi ventidue anni che molto mi arricchirono anche sul piano umano, e a Stigliano.
Intanto, dopo il caotico e illusorio dinamismo degli anni Ottanta, suscitato dalla disponibilità dei fondi del terremoto, il paese viveva un altro periodo di forte criticità, quando all’inizio degli anni Novanta una nuova e imponente ondata migratoria ne ridimensionò la popolazione, ridottasi alla fine a circa 4000 abitanti.
In quegli anni diventò rilevante anche l’esodo di giovani che, partiti per frequentare le Università nelle città del centro e del Nord dell’Italia, non avrebbero più fatto ritorno, se non per brevi periodi dell’anno. Sotto tale aspetto Stigliano si rivelava in linea con i parametri di una regione, in cui solo il 25% degli studenti s’iscrive all’Università di Basilicata. Non sorprende, pertanto, che nel 2013 si siano registrati fuori della regione ben 2970 laureati, che, per mancanza di concrete prospettive di lavoro in Basilicata, hanno costruito o costruiranno altrove il loro progetto di vita. Magari anche in Cina o in Australia, o chissà dove.
Sul finire del secondo millennio si consolidava così anche per Stigliano, come per tutti i paesi appenninici, il fenomeno di una «grandiosa dilatazione antropologica», iniziato oltre un secolo prima, per cui mentre la comunità di origine si è ridimensionata massicciamente, altre comunità “stiglianesi” si sono formate lontano, in Italia e all’estero.
A Cardano al Campo, ad esempio, si stabilirono negli anni Sessanta oltre mille stiglianesi e la cittadina del varesotto vide crescere la sua popolazione da 6462 a 10143 abitanti nel decennio compreso fra il 1961 e il 1971. A sottolineare l’intenso rapporto creatosi nel tempo fra i due lontani paesi, con una benemerita iniziativa si diede vita nel 2006 ad un gemellaggio, che testimonia peraltro quanto forte permanga il legame, almeno nell’arco di una o due generazioni, fra chi è rimasto e chi è partito.
Stigliano, Il Castello visto da Villa MarinaIn seguito alle continue diaspore, che hanno reso anemica la comunità, oggi i ritorni a Stigliano sono sempre più connotati da un senso di penoso imbarazzo e di grave disagio. Rattrista, infatti, aggirarsi per il paese fra strade vuote e case forse abbandonate per sempre, che chiedono di non morire a chi ha avuto la ventura di partire o di restare, senza averne, nell’uno o nell’altro caso, colpa né merito.
Nell’impossibilità di cambiare quello che pare il corso ineluttabile degli eventi, ciascuno di noi non può che accogliere almeno questo tacito invito, non sottraendosi al dovere di ricordare e di raccontare il paese natale. Perché, ci ammonisce il grande scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun, «Potrai conoscere lingue e paesi, ma il tuo luogo di nascita, la terra che ti ha accolto, il tetto che ti ha dato riparo, le persone che ti hanno amato, le mani che ti hanno preso per darti il seno, il vento che ti ha regalato un po’ di fresco in estate, l’albero che ti ha fatto ombra, tutti loro non ti dimenticheranno, ovunque tu ti trovi».
E’, «il paese», un grumo di gioie e dolori, di storie e memorie racchiuso dentro il guscio dell’anima. Una dolce ossessione, che non ci abbandona.

V. Angelo Colangelo

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