Leonardo Angerame, reduce di El Alamein.

Momenti della battaglia di El Alamein (23 ottobre – 4 novembre 1942) nella storia e nei ricordi di un reduce. Alla memoria di un popolo, sconfitto in guerra, fa bene il ricordo di avere combattuto con onore, e di avere perso perché mancarono i mezzi, non il coraggio.

Lo storico Giordano Bruno Guerri scrive che El Alamein fu la battaglia che gli italiani sono fieri di aver perso. La battaglia infatti fu il simbolo della resistenza dell’Esercito italiano in Africa durante la seconda guerra mondiale. Il 23 ottobre del 1942 le truppe degli alleati attaccarono le forze dell’Asse sconfiggendole. Fu uno scontro epico, avvenuto per giorni e giorni nel deserto, destinato a consacrare al mito le divisioni Ariete e Folgore. Fino all’autunno del 1942 le forze dell’Asse sembravano avere ancora il predominio militare. Fra settembre e novembre, però, inizia la battaglia di Stalingrado, che segna la fine dell’avanzata italo-tedesca in Russia; in ottobre la battaglia di El Alamein, nel deserto egiziano, ferma l’avanzata dell’Asse verso il Canale di Suez. In novembre, con l’accerchiamento di von Paulus a Stalingrado e la ritirata di Rommel a El Alamein, falliva il tentativo di chiudere in una morsa i territori del Medio Oriente controllati dagli inglesi e la conquista dei suoi pozzi di petrolio. Ad El Alamein, Rommel, grazie al sacrificio dei soldati italiani che resteranno a proteggere la ritirata tedesca e quella di altri reparti italiani, riuscirà a portare in salvo le truppe corazzate. Se Rommel avesse vinto sarebbe stata una guerra diversa, ma avrebbe portato lo stesso alla vittoria finale degli Alleati, perché fu una vittoria soprattutto di mezzi.

Alla vigilia della battaglia l’Armata italiana era formata da 3 Corpi, due di fanteria (X e XXI) ed uno corazzato (XX), per complessive cinque divisioni di fanteria (17ª Pavia, 27ª Brescia, 185ª Folgore, 25ª Bologna, 102ª Trento), due corazzate (132ª Ariete e 133ª Littorio) e una motorizzata (101ª Trieste); il Deutsches Afrika Korps era costituito da due divisioni corazzate (15ª e 21ª Panzerdivision), una leggera motocorazzata (90ª Leichte division), una di fanteria (164ª Infanteriedivision), una brigata paracadutisti (22°, Ramcke, dal nome del suo comandante). Queste forze erano supportate da 340 aerei, di cui 110 tedeschi. L’intero schieramento ad El Alamein comprendeva in totale (ma i numeri variano secondo le fonti): 104.000 uomini (circa 55.000 italiani), 751 pezzi di artiglieria, 522 pezzi anticarro, 535 carri armati (242 tedeschi, 293 italiani), poche decine di autoblindo. L’VIIIª armata britannica ad El Alamein, formata da inglesi, francesi, greci, australiani, neozelandesi, indiani e sudafricani era costituita dal X corpo d’armata corazzato, comprensivo di due divisioni corazzate al completo (Iª e Xª) e di alcuni reparti dell’VIIIª, dal XIII° corpo d’armata, costituito dalla VIIª divisione corazzata e la XXXXª e la Lª di fanteria; dal XXX° corpo d’armata, costituito da cinque divisioni di fanteria; da diversi supporti d’armata di consistenza equivalente ad un’altra divisione motocorazzata. In totale: circa 200.000 uomini, 1200 carri armati, 400 autoblindo, 939 pezzi di artiglieria, 1200 aerei da caccia e da bombardamento. Da queste cifre la sproporzione delle forze risulta evidente, si aggiunga inoltre la superiorità tecnica degli armamenti alleati su quelli delle forze dell’Asse.

Appena iniziata la guerra, il 28 giugno 1940, il maresciallo Italo Balbo era stato abbattuto per errore dalla contraerea italiana. Il suo successore, maresciallo Rodolfo Graziani, non si era distinto per intraprendenza e il 19 gennaio 1941 Mussolini dovette chiedere aiuto a Hitler. Nei mesi successivi sbarcò sulla costa libica l’Afrikakorps del generale Rommel. L’offensiva continuò nel gennaio 1942 finché, in maggio, le truppe italo-tedesche arrivarono ad El Alamein, a circa 100 chilometri da Alessandria d’Egitto. La campagna sembrava vinta, fino a quando non furono gli inglesi a prendere l’iniziativa. L’attacco fu guidato dal generale Montgomery. La sera del 23 ottobre 1942 mille pezzi di artiglieria inglese spararono contemporaneamente per circa venti minuti. Alla fine del 24 l’offensiva aveva aperto profonde sacche nello schieramento italo-tedesco, ma non era riuscita ad aprire una vera breccia. Nelle prime ore del 25, Montgomery ordinò un nuovo attacco prima dell’alba, ma dovette affrontare violenti contrattacchi, in particolare della 15ª divisione corazzata tedesca e dell’Ariete. Nel settembre Rommel era stato ricoverato in un ospedale in Germania e sostituito dal generale Stumme che però era morto pococ dopo l’inizio della battaglia. Hitler non esitò a chiedere a Rommel di riprendere il comando, ma era già tardi. Il 27 e il 28 ottobre la 15ª e la 21ª divisioni corazzate tedesche scatenarono una violenta offensiva, invano. Il 2 novembre tutti i carri armati italo-tedeschi superstiti attaccarono il saliente britannico su due fronti, ma vennero respinti. Il 3 iniziava la ritirata, nonostante Hitler l’avesse assolutamente proibita. Winston Churchill disse:
«Rommel si trovava ormai in piena ritirata, ma vi erano mezzi di trasporto e carburante sufficienti soltanto per una parte delle sue truppe e i tedeschi… si arrogarono la precedenza nell’uso dei mezzi. Parecchie migliaia di uomini appartenenti alle sei divisioni italiane, furono così abbandonate nel deserto… senz’altra prospettiva che quella di essere circondati». Alla fine della battaglia di El Alamein l’Asse lamentava la perdita di 25.000 uomini tra morti, feriti e dispersi e circa 500 carri armati, oltre a 30.000 prigionieri, 20.000 italiani e 10.000 tedeschi. Gli inglesi persero 13.560 uomini, tra morti, dispersi e feriti e 600 carri armati fuori combattimento. Per gli italiani era finito, ancora una volta, il sogno d’Africa. Al nemico si apriva la possibilità di invadere l’Europa dall’Italia, dalla Francia o dalla Grecia. Chi con emozione ricorda o legge oggi della battaglia di El Alamein – scrive G.B.Guerri –  non lo fa perché è un nostalgico, o un fascista, oppure folgorato da furore bellico. Alla memoria di un popolo, sconfitto in guerra, fa bene il ricordo di avere combattuto con onore, e di avere perso perché mancarono i mezzi, non il coraggio

 

Leonardo Angerame, il primo da sinistra
Leonardo Angerame, il primo da sinistra

Reduci sopravvissuti di El Alamein, oggi, ne sono rimasti pochissimi. Ne ho conosciuto uno circa un mese fa: il signor Leonardo Angerame, un cordiale e simpatico giovanotto 93enne – è nato infatti il 14 giugno 1920 a Cirigliano – ben disposto a rispondere alle nostre domande e felice di raccontarci la sua avventura in Africa durante la Seconda Guerra Mondiale. Per caso l’amico Mario D’Urso lo ha conosciuto e insieme abbiamo deciso di farci raccontare la sua esperienza. Con il figlio Angelo lo andiamo a trovare nella sua casa stiglianese dove vive da solo. Ci accoglie sorridente e ci invita a sederci attorno al tavolino che tiene nel piccolo terrazzo coperto che precede l’ingresso di casa. Sul tavolino vediamo un paio di foto, dove compare in tenuta militare, e alcuni foglietti di appunti che il previdente e preciso signor Leonardo ha preparato per l’occasione (la memoria, si sa, ad una certa età può giocare qualche scherzo: meglio prevenire). Ci tiene subito a precisare che ha frequentato solo le elementari, per cui si scusa in anticipo se nel raccontare si esprimerà in maniera “poco a modo”. Lo rassicuriamo e lo invitiamo a parlare liberamente, come meglio crede. Cerco di iniziare a fare qualche domanda: mi interessa la sua esperienza personale, ma Leonardo, ignorando le mie domande, comincia ad illustrare l’andazzo generale della vicenda bellica italiana in Africa. Non lo interrompo anche perché è lui stesso che ad un certo punto inizia la digressione e racconta le cose che ha visto e vissuto in prima persona :
Avevo 19 anni quando fui chiamato a svolgere il servizio militare e sono tornato che ne avevo 26. Ero nella 27ª Divisione Fanteria Brescia (n.d.a. – Durante la seconda guerra mondiale la Divisione partecipò alla campagna del nord Africa distinguendosi nell’assedio di Tobruk, nella presa di Marsa Matruk e nella battaglia di El Alamein, dove, completamente distrutta dagli attacchi inglesi, nel novembre 1942 fu ufficialmente disciolta) e il mio reparto fu dislocato per qualche mese in Calabria. Nel febbraio del 1939 fui imbarcato a Napoli per Tripoli, destinazione Mellaca, poi trasferito a Zavia al confine della Tunisia e successivamente spedito al fronte di Tobruk – occupata dagli inglesi – nelle retrovie. Ero caporale, aiutante furiere. Il mio diretto superiore era un capitano di Armento (PZ).
Ad un certo punto, si interrompe, si alza dalla sedia, entra in casa e poco dopo ne esce con due libri in mano. L’argomento, manco a dirlo, è la Seconda Guerra Mondiale e la Guerra d’Africa. Il signor Leonardo, nel suo piccolo e con giustificato orgoglio, cerca di ricostruire i suoi ricordi e parte della sua vita attraverso la storiografia “ufficiale”. E deve essere così attento nelle sue letture, nelle sue ricerche che ad un certo punto dice: “Però su questo libro c’è una data sbagliata… non corrisponde”. Non so a quale data si riferisca, comunque riprende i suoi ricordi da dove li aveva interrotti :
Insieme a me c’erano alcuni paesani: mi ricordo di uno di Ferrandina e uno di Garaguso. Uno era di un altro paese della provincia di Matera, e poi c’era il capitano di Armento. I nomi non li ricordo.
Leonardo parla e comincia a ricordare i piccoli drammatici episodi vissuti :
Agli Archi dei Fileni stavo fermo vicino a un camion; davanti a me, a poca distanza, c’erano due fidanzatini del posto. All’improvviso dal cielo due caccia inglesi cominciarono a mitragliare il campo. D’istinto mi buttai sotto il camion, dietro una ruota; i due fidanzatini vennero colpiti e caddero falciati davanti ai miei occhi. Durante un attacco degli inglesi un soldato di caserta e uno calabrese lasciarono il pezzo e le munizioni e fuggirono nelle retrovie. Un contrattacco degli italiani arrestò l’avanzata inglese. I due fuggitivi vennero fermati e poiché era stato trovato il cannone intatto e con tutte le munizioni alcuni ufficiali chiesero loro perché avessero abbandonato la posizione. Immediata la punizione: i due vennero fucilati di spalle, come i vigliacchi e i disertori. Io fui comandato (costretto) insieme ad altri ad assistervi. Fui ricoverato per problemi epatici a Barce. L’ospedale in cui mi trovavo fu colpito da una bomba e precisamente il padiglione ufficiali, dove morirono 17 di quelli. Per inidoneità alla prima linea, vennni trasferito al 226° battaglione territoriale presso l’ospedale di Derna. Anche quello venne bombardato. In cinque o sei fuggimmo dalla nostra stanza. Eravamo quasi vicino alla porta quando una bomba esplose lanciando una grossa scheggia sopra le nostre teste, fortunatamente lo spostamento d’aria dell’esplosione ci buttò giù prima, e ancor più fortunatamente ci fece cadere in una buca profonda. Ci salvammo. Dopo questo episodio pensai che sarebbe stato meglio morire in prima linea. Feci domanda per essere trasferito e firmai. Venni mandato alla sussistenza. In un giorno di libertà andai al mare. Pochi giorni prima avevo trovato una cassa di esplosivo abbandonata. Ne presi una piccola quantità e la portai al mare, dove praticamente mi misi a pescare con quell’esplosivo. Nel ritornare al campo mi sorvolò un aereo inglese il quale iniziò a mitragliare la zona, sta di fatto che mi buttai a terra e vi rimasi immobile. I proiettili cadevano comunque lontano da me. Forse non ero io il bersaglio. Un altro giorno venne bombardata la sussistenza. Qualche giorno prima, per precauzione, avevo scavato con mezzi di fortuna una grossa buca in una roccia tufacea. Mi buttai dentro e ci ritrovammo in sei. Non riuscivo a respirare. Più che ucciso dalle bombe stavo per morire soffocato. Alla fine ne uscimmo tutti salvi. Ricordo cataste immense e distese interminabili di cadaveri. La ritirata verso gli Archi dei Fileni (vicino Misurata) dopo la cruenta battaglia di Bengasi, fu a tratti combattuta all’arma bianca. Fui fortunato perché il mio reparto era stato tra i primi ad arretrare. Ci fermammo a Sidi El Barrani, dopo aver percorso la strada con gli automezzi a fari spenti e in colonna serrata, mentre il giorno si procedeva in formazione distanziata. Quando ero alla sussistenza sono stato comandato di portare il rancio dalle retrovie alla prima linea. Per fare ciò dovevo attraversare il cosiddetto Passo della Morte, un percorso dove prima di me erano stati uccisi, colpiti da cannonate, parecchi altri soldati. Uno lo vidi io direttamente, preso in pieno da un proiettile di cannone. Di lui non rimase niente.
Il racconto di Leonardo è frammentario, ma chiaro, a volte amaramente ironico. Non ricorda le date, ma le circostanze e le situazioni sono ancora ben chiare, fissate nella sua mente dalla violenza indelebile di quella dura esperienza vissuta. Gli chiedo se in qualche modo ha avuto contatto con i maggiori personaggi e protagonisti di quella guerra e lui mi risponde di aver visto il generale Rommel. Mi dice anche di aver assistito alla caduta dell’aereo di Italo Balbo, che si è schiantato a circa un chilometro dal posto in cui si trovava. Poi comincia a ricordare il triste capitolo della prigionia durato quattro anni :
Durante la rotta, seguita alla battaglia di El Alamein, l’ordine generale fu “si salvi chi può”. Incalzati dagli inglesi e dalle loro cannonate a migliaia cercammo scampo lungo la costa. Stanchi, ci fermammo la notte a dormire. Al mattino gli inglesi ci raggiunsero e ci fecero prigionieri. Nei giorni successivi ci caricarono sui camion e fummo trasportati in Egitto al campo di prigionia 305, nei pressi del Mar Rosso. Da lì fummo fatti salire a bordo di navi che ci trasportarono, attraverso il Golfo Persico, in Iraq a Bassora, dove arrivammo dopo 18 giorni. In Iraq, insieme a moltissimi altri prigionieri italiani, fui ricoverato per intossicazione alimentare, perché ci davano da mangiare scatolette di cibo scaduto. Per tutto il tempo della prigionia ci accompagnarono fame e pidocchi. Ricordo che raccattavo pezzi di tela con cui mi ingegnavo a fare biancheria intima che regalavo ai miei compagni, chiedendo di tanto in tanto di darmi un cucchiaio in più di minestra. Dopo l’armistizio firmato da Badoglio, gli inglesi chiesero a tutti noi prigionieri italiani (più di duemila) se volevamo collaborare con loro. In 1200 ci rifiutammo. Sono stato rimpatriato dopo quasi quattro anni di prigionia.
Gli faccio un’ultima domanda: una volta tornato cosa avete fatto?
Mi sono sposato e ho avuto sette figli. Ho fatto l’operaio sulle strade e poi il cantoniere. Un giorno mentre stavamo lavorando su una strada fuori Cirigliano, vicino a un ponte,  un altro operaio trovò un oggetto e lo prese. Venne verso di me, me lo mostrò e io capii subito che si trattava di una bomba a mano inesplosa: una Balilla. Ne avevo viste tante al fronte. Gli dissi di non agitarla e di posarla lentamente  per terra. L’operaio fece quello che gli dissi, ma la bomba scoppiò lo stesso. Subì gravi ferite alle gambe, mentre io venni lanciato a qualche metro dallo scoppio. Una ventina di piccole schegge mi colpirono al torace, una più grossa alla pancia e un’altra alle parti intime. Per fortuna non morii. Venni ricoverato e operato e dopo un pò di tempo mi ripigliai.
Certo che per il nostro reduce sarebbe stata davvero una beffa del destino: morire per una bomba in tempo di pace dopo essersi salvato da quelle in tempo di guerra.

Salvatore Agneta

 

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