La poetica dell’addio nella letteratura italiana

La poetica dell’addio nella letteratura italiana

di Angelo Colangelo

Premessa
Il distacco, inteso come separazione, definitiva o provvisoria ma in ogni caso dolorosa, da cose, luoghi e persone, è un tema che dall’antichità ad oggi ha trovato grande accoglienza nella letteratura universale. Fino a diventare un autentico e intrigante tόpos letterario Circoscrivendo il campo di osservazione alla storia della letteratura italiana, è sufficiente il riferimento a poche ma importanti opere, cui si attribuisce il valore della esemplarità, per comprenderne la enorme rilevanza.
Consistente, infatti, è il numero di opere letterarie di vario genere, che hanno rappresentato un fenomeno importante sul piano storico e sociale. Si può dire che i protagonisti di tali opere danno vita a una vera e propria “mitografia del personaggio”, che appare già agli albori della storia della letteratura italiana. E, vedendo la luce con la Commedia dantesca, non poteva avere origini più illustri.
Dante e l’esilio
Dante (1265 – 1321), come tutti sanno, fu costretto all’esilio, dopoché nel 1301 a Firenze la fazione dei Guelfi Neri oltranzisti, capeggiata dalla potente famiglia dei Donati, riuscì ad avere il sopravvento sui Guelfi Bianchi moderati guidati dai Cerchi, con i quali il poeta era schierato. Iniziò allora a girovagare per l’Italia centrosettentrionale, trovando ospitalità nelle corti di alcuni Signori dell’epoca. Dopo venti anni morì a Ravenna, senza aver mai più potuto rivedere la sua città natale.
Alla sua condizione di esule ricorrenti sono i riferimenti nel Poema. Spesso l’autore lascia che siano i personaggi incontrati durante il suo eccezionale viaggio attraverso i regni dell’oltretomba a predirgli il triste futuro che lo attende. Lo fa con un ingegnoso artifizio, cioè ricorrendo a quelle che sono state definite profezie post eventum. In sostanza, le anime dell’aldilà, alle quali è attribuito il potere di conoscere il futuro, annunciano a Dante fatti che si riferiscono al 1300, l’anno del viaggio ultraterreno, ma che sono già accaduti al tempo in cui era stato scritto almeno una parte del poema.
Fra i tanti episodi meritano di essere citati almeno i due più famosi, l’incontro con Farinata degli Uberti nel cerchio infernale degli eretici e quello con il trisavolo Cacciaguida tra gli spiriti combattenti nel V cielo del Paradiso. Il primo predice a Dante che nel giro di cinquanta mesi sperimenterà di persona quanto pesi l’arte di rientrare nella città da cui si è stati banditi: «Ma non cinquanta volte fia raccesa / la faccia della donna che qui regge, / che tu saprai quanto quell’arte pesa».i
Il secondo, invece, nel XVII canto del Paradiso gli preannuncia che per gli intrighi di papa Bonifacio VIII sarà obbligato a lasciare Firenze, così come un tempo accadde a Ippolito, costretto a lasciare Atene per la cattiveria della sua matrigna. E con mestizia gli confida: «Tu lascerai ogni cosa diletta / più caramente; e questo è quello strale / che l’arco de lo essilio pria saetta. // Tu proverai sì come sa di sale / lo pane altrui, e come è duro calle / lo scendere e il salir per l’altrui scale ».ii
Il tema dell’addio in Foscolo e Manzoni
Per altre ragioni e in un mutato contesto storico, cinque secoli dopo, Ugo Foscolo (1778 – 1827) condusse, pur egli, una vita raminga al pari di Dante. Ne accenna anche in uno dei suoi sonetti più belli, Un dì s’io non andrò fuggendo. Dedicato al fratello Giovanni, morto tragicamente, il componimento richiama il carme 101 del Liber catulliano, Multas per gentes et multa per aequora vectus (Trasportato attraverso molti popoli e molti mari), composto dall’antico poeta veronese in occasione di un viaggio in Bitinia, dopo aver visitato la tomba del fratello scomparso.
Catullo e Foscolo, inoltre, ripropongono il tema del distacco, ponendosi sulle orme del grande poeta alessandrino Callimaco (305 a. C. circa – dopo il 245), che con una splendida invenzione poetica aveva generato l’elegia Bereníkes Plókamos (La chioma di Berenice). Egli narra la singolare storia della regina egiziana Berenice, che offre in dono alla dea Afrodite un ricciolo della sua bellissima chioma, invocando il ritorno dalla guerra del suo sposo Tolomeo III Evergete. Ma, subito dopo il ritorno del sovrano, la chioma votiva improvvisamente scompare dal tempio e l’astronomo di corte Conone scopre che essa è salita al cielo e si è trasformata in una meravigliosa costellazione.
Alessandro Manzoni (1785 – 1873), a sua volta, immortala il doloroso distacco di Lucia dai luoghi, dalle cose e dalle persone a lei care nel celeberrimo brano “Addio, monti …”, che mirabilmente suggella il capitolo ottavo dei Promessi sposi. Attraverso i pensieri e le ansie di Lucia lo scrittore fissa in una serie di immagini di intensa liricità i vari e tumultuosi sentimenti di chi dal paese se ne parte volontariamente e di chi mai ha concepito “un desiderio fuggitivo”. Manzoni, un esperto conoscitore di quel guazzabuglio che è il cuore umano, qui attinge alti vertici di poesia, grazie a una fine analisi psicologica e a una inarrivabile descrizione dei pensieri di Lucia, che sul piano formale si traducono in una felice coalescenza di toni lirici ed elegiaci.

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I promessi sposi, Addio monti

Il confino di Carlo Levi e l’emigrazione nella poesia di Scotellaro
A questo punto, essendo impossibile citare l’infinita schiera di scrittori e poeti italiani moderni e contemporanei, che al nostro tema hanno dedicato carmi, romanzi o racconti di notevole rilevanza sul piano contenutistico e formale, soffermeremo l’attenzione soltanto su due di loro, che ci sono familiari, Carlo Levi (1902 – 1975) e Rocco Scotellaro (1923 – 1953), anche per rendere omaggio alla memoria di quest’ultimo nell’anno in cui, per una singolare coincidenza, ricorrono il centesimo anniversario della sua nascita e il settantesimo della morte.
Carlo Levi fin da giovane condusse una vita movimentata, che lo portò spesso lontano da Torino, sua città natale. È, però, certo che per la prima volta avvertì forte il distacco dalla famiglia, dagli amici, dai luoghi dove aveva trascorso l’infanzia e la giovinezza, quando per la sua attività cospiratoria contro il fascismo, dopo essere stato incarcerato per due volte, fu mandato in Lucania a scontare tre anni di confino.

La poetica dell’addio nella letteratura italiana
Carlo Levi al confino

Ebbe, comunque, la forza di reagire positivamente, come testimoniano le lettere scritte alla madre Annetta Treves, alla sorella Luisa, alla compagna Paola Olivetti. Già il 5 agosto 1935, il giorno dopo essere giunto a Grassano, si premura di informare la mamma che «Il viaggio, malgrado la noia delle manette, è stato assai gradevole, per i luoghi a me ignoti e bellissimi che si traversano». Si sofferma, poi, a descrivere i luoghi a lui finora estranei, che gli si rivelano diversi da come li aveva immaginati, e confessa la sua incertezza su come potrà dipingere un «paesaggio così serio e grave, che è esattamente l’opposto della varietà colorata e felice di Alassio». Non manca, infine, di esprimere la dolce consolazione di poter fare comunque «una esperienza nuova, che non avrebbe mai fatto altrimenti …».iii
Considerando la reazione di Levi al soggiorno obbligato in Lucania, si può agevolmente cogliere un’affinità di atteggiamento fra lui e Seneca, che risalta con più patente evidenza, se si considerano le argomentazioni, che quest’ultimo adotta per consolare la madre Elvia, costernata per la condanna del figlio all’esilio in Corsica.
Nella Consolatio ad Helviam, infatti, l’antico filosofo rincuora la mamma e la esorta ad essere serena, dicendole fra l’altro che, anche da esuli «due cose bellissime ci seguiranno dovunque andremo, la natura comune agli uomini e la propria virtù. (Duo quae pulcherrima sunt quocumque nos moverimus sequentur, natura communis et propria virtus)». In realtà, aggiunge Seneca con serena convinzione, «ciò che vi è di meglio nell’uomo è sottratto al potere umano e non può essere né dato né tolto. (Quidquid optimum homini est, id extra humanum potentiam iacet, nec dari nec eripi potest».iv
Quanto diversa è, invece, la reazione di Cesare Pavese! Questi, giunto al confino di Brancaleone Calabro nello stesso giorno in cui Levi arrivava in Lucania, in una amara lettera inviata al professor Augusto Monti l’11 settembre, lamenta di essere obbligato ad «assaporare in tutte le sue qualità e quantità più luride la noia, il tedio, la seccaggine, la sgonfia, lo spleen e il mal di pancia», che segnano le sue giornate. Non manca, poi, di esternare il suo dispetto «che il genio italico non abbia ancora escogitato una droga che propini il letargo a volontà, nel mio caso per tre anni».v
Oltre che per la vicenda personale del confino, Levi, però, merita di essere ricordato per l’attenzione che prestò al tema dell’emigrazione non solo come intellettuale e politico, ma anche come scrittore. Ne è prova eloquente la capacità mostrata nel suo libro più famoso, Cristo si è fermato a Eboli, di descrivere con un’acuta analisi sociologica e con rara sensibilità artistica l’emigrazione americana, che ad Aliano, come in tanti paesi del Sud, produsse il fenomeno delle “vedove bianche”.
Non fu, infine, insensibile al tema dell’emigrazione Rocco Scotellaro, figlio della terra dove, secondo Francesco Saverio Nitti, si poteva essere solo “o briganti o emigranti”. Il poeta, come capitava a molti suoi coetanei, da ragazzo dové lasciare Tricarico, per continuare gli studi. Da allora girovagò a lungo per varie città italiane. Provò, quindi, il dolore della lontananza dalla famiglia e dagli amici, subito dopo aver frequentato la scuola elementare. Intanto, nel suo paese egli aveva potuto osservare il desolante spettacolo dello smembramento delle famiglie, perché i padri erano stati obbligati a partire a malincuore, per provvedere al loro mantenimento.

La poetica dell’addio nella letteratura italiana
Rocco Scotellaro e i contadini

Ciò accadeva non solo in Lucania, ma in quasi tutte le regioni italiane, come mostra il bel poemetto Italy, in cui Giovanni Pascoli, che fu molto caro a Scotellaro, evocò l’emigrazione, intensificatasi in Italia tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento. Non stupisce, dunque, che in alcune poesie della silloge È fatto giorno, pubblicato per merito di Carlo Levi un anno dopo la prematura e improvvisa scomparsa del giovane amico, anche Scotellaro abbia ricordato le partenze di tanti contadini tricaricesi, i quali inseguivano in America la fortuna che era loro negata in patria.
Alle meste partenze degli emigranti verso luoghi lontani e ignoti si accenna ne Il primo addio a Napoli, quando il poeta ammette di non voler «… più sentire di questa città, / confine dove piansero i miei padri / i loro lunghi viaggi all’oltremare».vi Alla stregua di quanto accadeva al Nord nel porto di Genova, vividamente descritto da Edmondo De Amicis nel bel libro Sull’Oceano, a Napoli confluivano emigranti da tutte le regioni meridionali, per imbarcarsi verso gli Stati Uniti o alcuni Paesi dell’America latina. Affrontavano viaggi lunghi, faticosi, rischiosi e, non di rado, senza ritorno.
Fra i tanti, che sognarono un riscatto in America, vi fu anche Vincenzo, il padre del poeta. In Così papà mio nell’America, una poesia composta nel 1948, tramite la figura paterna si commisera il male di vivere dell’emigrante, che deve lottare a mani nude in un mondo ostile, perché è da tutti ignorato: «Così Papà mio nell’America / stette degli anni a camminare / e poteva anche cadere / nessuno lo avrebbe chiamato».vii In effetti, il sogno di un riscatto lontano da casa per molti lucani presto si trasformò in cocente disillusione.
Pochi emigrati, infatti, ebbero la possibilità di trovare una soluzione ai loro problemi e molti dovettero arrendersi. Così fu anche per Vincenzo Scotellaro e se ne ricorda il figlio poeta, quando deve abbandonare Tricarico: «E come te, uscito come un panno / nuovo dal bucato, / me ne sono andato dal paese / a quell’estero che mi era aperto / nelle varie città italiane. / Tu a Patterson, ti vedo, alla mia età soffrivi la vanità del sacrificio / proprio come me ora, e te ne tornasti».viii
La sfortunata esperienza di Vincenzo farà dire a Scotellaro in un’altra lirica molto nota: «C’era l’America, bella, lontana / del padre mio che aveva vent’anni. / Il padre mio poté spezzarsi il cuore. / America qua, America là / dov’è più l’America del padre mio?».ix Il fallimento è espresso con amarezza in una nota dello stesso autore in calce al componimento: «È finita per sempre oggi nel mondo l’illusione paterna che esista ancora un paese chiamato America. E il Venezuela, che ci resta, non vale un bicchiere d’acqua del Basento»x.
Iniziò, poi, l’esodo verso le città industriali del Nord, in particolare a Torino, che nell’immaginario poetico di Scotellaro si mostra «larga di cuore», pronta ad accogliere migliaia di uomini strappati alle campagne del Sud. Agli occhi del poeta essa assume le sembianze di «una fanciulla», capace di prendere per mano una moltitudine di persone, che, tristi e frastornate, sono accorse a «toccare l’azzurro delle tute», sognando la città «nel vento delle Fiat».xi Torino, in effetti, divenne nel giro di pochi decenni la terza città “meridionale” d’Italia dopo Napoli e Palermo, mentre i paesi lucani si svuotavano. Si innescò, allora, una crisi demografica, che oggi ha assunto dimensioni disastrose in tutte le aree interne del Paese.
Dalla terra di Rocco Scotellaro, in effetti, l’esodo non si è mai interrotto. Una volta partivano masse di contadini analfabeti, le facce cotte dal sole e indurite dalla fatica, che, timidi e impacciati, trasportavano a fatica le loro pesanti valige di cartone legate con lo spago. Negli ultimi tempi hanno preso ad andare via moltitudini di giovani diplomati e laureati, che si mostrano spigliati e sicuri di sé, mentre si muovono, maneggiando con sorprendente disinvoltura gli inseparabili smartphone e trascinando con nonchalance i loro comodi trolley.
Al di là dalle apparenze, in realtà, sono tutti vittime: quelli, di un neofeudalesimo ottuso e arrogante; questi, di una perversa e cinica globalizzazione. Fondale unico della scena, in cui si rappresentano le tragedie della Lucania di ieri e della Basilicata di oggi, è la fuga: la fuga da una terra “senza peccato e senza redenzione”, su cui sembra pesare come un’eterna maledizione la condanna a partire per non morire.

leggi altro di Angelo Colangelo

I Dante, Inferno, X, vv. 79-81
II Dante, Paradiso, XVII, vv.55-60
III Fondazione Carlo Levi, b. 21, f. 755
IV Ibidem, VIII, 1; VIII, 4
V Lettera ad Augusto Monti in Davide Lajolo, Il vizio assurdo, Il Saggiatore, Milano, 1967
VI R. Scotellaro, È fatto giorno (1940-1953), Mondadori, Milano, 1954, p. 27, vv. 22-24
VII Ibidem, p. 61, vv. 5-8
VIII Ibidem, Al padre, p. 154, vv. 7-14
IX  Ibidem, C’era l’America, p. 150, vv. 1-6
X  Ibidem, nota a C’era l’America, p.151
VI  Ibidem, Biglietto per Torino, p. 134, passim

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