LA FESTA DI SANT’ANTONIO (nei miei ricordi)

Nelle manifestazioni affettive eravamo tutti molto avari, alle effusioni non avevamo né l’abitudine né l’educazione. I nostri genitori, nonostante fossero convinti che la formazione andasse impartita soprattutto con metodi maneschi, ci volevano un gran bene, ma le carezze, i baci, gli abbracci, le coccole erano assenti, quasi sconosciuti. La terra, il lavoro, il sudore, nella loro immutabile e aspra quotidianità, rendevano duri anche gli animi e li portavano a selezionare, quasi a cancellare le manifestazioni di tenerezza. I valori, i sentimenti, rimanevano forti, profondi, positivi, ma non c’era posto per le affettuosità esteriori, le feste, le ricorrenze.
Ci si ricordava del mio onomastico e di quello del nonno solo perché coincideva con la solennità del santo patrono, ma quel giorno, atteso e magico, era festa grande anche per quelli che si chiamavano Vito, Rocco, Vincenzo, Salvatore…
Il giorno della vigilia, a darci la sveglia era la banda che di buon mattino faceva il giro del paese. Subito si spandeva, si amplificava, il richiamo gioioso, complice: “È arrivata la banda! È arrivata la banda! Sbrighiamoci, andiamo appresso alla banda!” E seguivamo la banda, spesso scimmiottando i suonatori veri e fingendo di suonare strumenti esistenti solo nella nostra immaginazione.
La festa si solennizza a casa del nonno, il capostipite, che in questo giorno ama essere circondato da tutta la famiglia.
«Mammo’, oggi è la festa di Sant’Antonio, non si lavora, l’arciprete ha detto che si fa peccato e si va all’inferno. Non vieni alla processione?» le chiedo prima di scappare via.
«Sant’Antonio mi perdona, lui lo sa, lo sa. Se vengo alla processione, si fa tardi, non riesco a preparare la minestra e allora oggi non si mangia».
Non mi dispiace che resti a cucinare, anzi…
La lascio al suo peccato, corro verso il Convento, la chiesa di Sant’Antonio.
Il paese, vestito a festa, si è riversato per le strade, la gioia comune è diffusa nell’aria, nel primo tiepido sole di giugno.
Pur nella loro povertà, tutti vogliono fare sfoggio di eleganza: una giacchetta, una camicia con la scolla, la cravatta attaccata al bottone della pistagna e, per le donne, una bella camicetta, un paio di scarpe con un accenno di tacco…
Le ragazzine, bambole agghindate come l’occasione richiede, sembrano bellissime, attirano l’interesse di noi maschietti. Appena tentiamo di avvicinarle, fuggono, cerbiatte impaurite.
Lungo la strada m’incuriosiscono i monachicchi, ragazzini vestiti con il saio francescano, lungo fino ai piedi, stretto da un cordone bianco. Somigliano davvero a Sant’Antonio!
Le mamme, per invocare la protezione del Santo sul futuro dei figli, per una grazia ricevuta o per una che ancora deve arrivare, gli hanno fatto voto di vestire un loro bambino come lui, di farne un sant’Antonio in miniatura.
Di santità però ne hanno poca, continuano a tirare pietre, a commettere cattiverie come tutti gli altri ragazzi che non indossano l’abito monacale, ma oggi è la loro festa ed esercitano il diritto di pavoneggiarsi nel loro vestitino un po’ strano, ma… bellissimo!
Sul sagrato della chiesa la banda è pronta, schierata. Spalanchiamo gli occhi sui vari strumenti: la tromba, il tamburo, i piatti e soprattutto sui tromboni, che sembrano grandi, lucide, immense, orecchie.
Nell’aria si respira devozione ingenua, sincera.
All’improvviso tra la folla comincia a serpeggiare una certa eccitazione: sta per uscire Sant’Antonio!
La statua appare tra la commozione generale, ondeggia sulle spalle dei fratìlle delle tre confraternite che, con quest’atto di devozione e di penitenza, forse vogliono farsi perdonare le frequenti bestemmie. Fede sincera e bestemmie terribili convivono in perfetto accordo, non si disturbano a vicenda.
Il santo è rigido, occhi fissi, regalmente portato, anche se un po’ traballante sulla pedana.
Oggi è la sua festa e certamente è molto, molto indaffarato, ad ascoltare le più svariate preghiere: un bel posto per il figlio, un ottimo matrimonio per la figlia, una buona annata per il grano, la scrofa deve figliare, il mulo azzoppato deve sanare…
Le persone pregano, cantano. Molte donne, ma anche alcuni uomini, procedono a piedi scalzi sfidando le pietre sconnesse, le scarpe degli altri, ma Sant’Antonio è un grande santo, merita questo sacrificio!
Al passaggio della statua, alcune vecchiette, sinceramente commosse e pentite, si battono il petto con grande energia e quei colpi secchi, violenti, producono una strana eco. Anche nella mia anima.
Le persone si accalcano per far appendere, al saio o alla bianca cotta, misere e sudate banconote che serviranno per rendere più bella la festa e per accattivarsi la simpatia, la protezione, del Santo. Spicca il verde dei dollari, le famose pezze americane inviate dagli emigrati di Nova York.
Sgrano gli occhi: quanti soldi e quante pezze americane! Il vestito del santo sembra fatto tutto di soldi!
Stanco e contento, torno a casa dei nonni dove trovo anche gli altri cugini che si chiamano Antonio e le loro famiglie.
Entrando resto abbastanza deluso: «Non avete invitato nessun bandista a mangiare?»
Asciutto e sorridente, mi risponde zio Biagio: «Solo il bandista ci mancava! Siamo già una morra di gente».
«Tonnuccio, hai fatto una preghiera per me?» mi chiede la nonna.
«Uh, mammo’, mi sono scordato! Ma oggi Sant’Antonio aveva mal di testa con tutte le persone che lo pregavano! Gliela farò domani. Per me ho chiesto di far spezzare la bacchetta del maestro».
«C’era molta gente? È stata una bella processione?»
«Sì, bellissima! Davanti alla statua c’erano molti cavalli, asini, muli, tutti aggiustati, pieni di pennacchi colorati, di campanelli che facevano proprio una musica. Sulla fronte portavano pure la santaredda di Sant’Antonio e anche una salma di grano da regalare per la festa. Mammo’, un signore sulla fronte portava in equilibrio un palo lungo lungo, toccava quasi il cielo e non lo faceva cadere! Era bravissimo! E poi c’era… c’era…»
«Mi racconterai dopo, adesso venite tutti a mangiare».
Per quest’occasione così solenne, in cui si festeggiava il capo della famiglia Patanaro, la nonna non poteva farci mancare le ricchietelle, le orecchiette fatte a mano.
Era svelta e bravissima: impastava la farina, la lavorava, dalla massa ricavava dei lunghi e sottili bastoncini che poi divideva in tanti piccoli pezzi. Con un coltello o con la rasolècchia li scavava, poi, rovesciandoli sul pollice, li trasformava in orecchiette, piccole, tutte uguali, di colore giallino, con la cupola verso l’alto. Così perfettamente allineate sopra la spianata de le tôvelidde, sembravano tanti elmetti militari sotto cui si poteva nascondere un esercito schierato in assetto di guerra, pronto a mettersi in marcia al cenno del comandante.

Brano tratto dal libro La ciminiera ha pigliato

Antonio Sinisgallo

 

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