Il pappagallo maleducato

Agostino, giocoliere girovago, si guadanava da vivere portando la sua arte per le contrade del Regno di Napoli. Un giorno, trovandosi dalle nostre parti, e precisamente nel bosco della Foresta, venne aggredito da una masnada di ladroni, percosso e derubato dei suoi pochi averi. Lasciato più morto che vivo, fu soccorso da due fraticelli che per caso si trovarono a passare dal bosco. I due trasportarono il poveretto al vicino convento di Sant’Antonio e, nonostante le cure di quei frati, dopo tre giorni di lunga agonia rese lo spirito a Dio. Prima di morire però volle lasciare ai monaci l’unico bene che era riuscito a salvare dalle mani dei banditi: un pappagallo dalle piume fluenti e dai colori vivaci. Il pappagallo era una bestiola rara e proveniva dal Nuovo Mondo. Un ricco e magnifico signore di Napoli lo aveva donato al giocoliere per il grande e divertente spettacolo che questi aveva saputo offrire in occasione del banchetto nunziale del signore. Dunque il pappagallo rimase ai fraticelli, i quali, con loro grande sorpresa, notarono che l’animale era in grado di ripetere con suoni graculi quasi tutto ciò che ascoltava. Frate Domenico lo prese a ben volere e lo trattò con tutti i riguardi. Non gli faceva mancare nulla: l’acqua per bere sempre pulita, i chicchi di orzo e di grano più grossi, e i pezzi di frutta più fresca. E non solo: gli spazzolava con cura le piume; lo coccolava e gli insegnava a recitare le preghiere e in particolare il Paternoster. Passarono i mesi e i fraticelli, sempre più colpiti dall’intelligenza e dalla facilità con cui la bestiola apprendeva, pensarono di battezzarla come un cristiano. Per fare questo però ci voleva il permesso del Vescovo di Tricarico. Allora frate Giuseppe, priore del convento, decise di recarsi dall’alto prelato e chiamò mastro Nicola il viaticaro affinchè conducesse una cavalcatura sulla quale egli potesse comodamente viaggiare. Essendo egli vecchio ed acciaccato, infatti, non avrebbe potuto affrontare a piedi la lunga strada accidentata che separava Stigliano da Tricarico. Il priore volle che ad accompagnarlo fosse frate Domenico, “tutore” del pappagallo. Così partirono il viaticaro, l’asina, il priore, il fraticello e il pappagallo. Tutto sembrava procedere per il meglio quando a metà percorso si scatenò l’ira di Dio: un temporale con lampi e tuoni mai visti e sentiti prima, e una pioggia che cadeva a secchiate tanto era densa e scrosciante. Fu in quel momento che frate Domenico esclamò: “C…(vi lascio intuire il termine) com chiov!…”. Va detto che il fraticello, pur essendo buono e pio, aveva un difetto: nel parlare, per giovanili sue costumanze, gli capitava di inserire qualche espressione colorata e poco conveniente per un uomo che si era dato al Signore. Il paziente priore, che ben conosceva il suo sottoposto, lo rimproverò bonariamente. Intanto il pappagallo, intimorito dai lampi e dai tuoni, se ne stava rannicchiato nella sua gabbia che il buon monaco aveva coperto con una cerata, ma vigile e attento ad ogni suono e voce. Ora accadde che un fulmine passò di poco lontano da frate Domenico e al suo passaggio il fraticello, sorpreso e impaurito, ebbe un’altra esclamazione: “C… tra poc m cogghie”. Il pappagallo, sempre intimorito e rannicchiato, ascoltava in silenzio, e il priore ancora una volta rimproverava il suo sottoposto. Intanto il fulmine, che aveva mancato il fraticello, era andato a colpire il ramo di una quercia che spezzandosi cadde fumante sulla testa della povera asina la quale stramazzò a terra. Frate Domenico allora, rivolgendosi a mastro Nicola, disse un’altra delle sue: “Nan penz ca jè mort… mittl na mazza n’gheul e visc com s hauz”. Il priore, rassegnato, alzò gli occhi imploranti al Cielo e chiese perdono per frate Domenico. Mastro Nicola, intanto, fece quello che gli aveva suggerito frate Domenico e l’asina, un pò stordita, si rimise ritta sulle zampe. Finalmente il temporale cessò e, dopo qualche miglio ancora, il gruppetto intravide le prime case di Tricarico. Giunsero finalmente al palazzo del Vescovo dove furono ben ricevuti da uno stuolo di monache e di prelati. Dopo essersi riposati e rifocillati vennero portati alla presenza del Vescovo, il quale non potè fare a meno di chiedere il perché di quella strana richiesta. Frate Domenico prese subito la parola e gli illustrò, con non poco orgoglio, le qualità del suo pappagallo. E a dimostrazione di quanto aveva affermato, il frate fece uscire dalla gabbia l’animaletto, se lo accoccolò sull’avambraccio e gli fece recitare alcune preghiere e il Paternoster. Il Vescovo, meravigliato ed entusiasta, dichiarò che anche quella creatura era meritevole della Grazia di Dio, e fu d’accordo a battezzare il pappagallo. Senza indugi venne approntata una piccola cerimonia. Alcune monache e qualche chierichetto si fecero subito intorno al Vescovo, mentre un prelato gli porgeva l’aspersorio dell’acqua santa. L’alto prelato iniziò a pregare e a invocare benedizioni, poi con un gesto rapido della mano asperse d’acqua il pappagallo. La bestiola, a quel punto, esclamò: “C… com chiov!…”, tra l’incredulo stupore di tutti i presenti. Frate Giuseppe, il priore, oltremodo imbarazzato, d’istinto cercò di colpire il pappagallo con la mano, ma l’animale riuscì ad evitarla e ad esclamare nuovamente: “C… tra poc m cogghie!”. I santi uomini e le pie donne presenti erano davvero sdegnati e sconvolti dalla maleducata audacia del pennuto, tanto che una monachella perse addirittura i sensi e cadde per terra. Il pappagallo, nel vederla esanime sul pavimento e ricordandosi della “cura” somministrata all’asina durante il temporale, esclamò ancora una volta: “Nan penz ca jè mort… mittl na mazza n’gheul e visc com s hauz”. Non l’avesse mai detto!: il priore, da tutti reputato uomo paziente e di indole pacifica, quella volta perse davvero il lume della ragione e si avventò contro il pappagallo per afferrarlo e torcergli il collo. Ma il pappagallo non stette certo ad aspettare e spiegate le ali spiccò un gran volo verso una finestra aperta. Fuggì lontano e nessuno più lo vide.

Salvatore Agneta

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