Il cinema con il camice bianco

A più riprese il cinema propone il conflitto tra medicina, etica e morale, illustrando spesso con lucidità il dramma, la speranza e l’angosciosa solitudine dei pazienti, l’abnegazione dei medici e gli squallidi spazi della degenza. Ora, al di là del racconto, la settima arte entra finalmente in corsia per proiettare le sue storie nelle strutture ospedaliere.
Dal 30 ottobre 2013 la magia del cinema fa il suo ingresso ufficiale nel sistema ospedaliero italiano. Grazie al progetto sostenuto da MediCinema, i pazienti della Fondazione Humanitas di Milano possono vedere film in prima visione. Ai malati viene infatti offerta la possibilità di assistere con i loro familiari a una serie di proiezioni in uno spazio ad hoc, sia dal punto di vista del comfort sia sotto il profilo tecnologico. Iniziativa battezzata “Cinema in corsia” in cui la cultura ha una vera e propria funzione terapeutica.
L’idea, nata in Gran Bretagna circa 15 anni fa, giunge finalmente in Italia per sviluppare un programma che prevede, oltre al cinema, anche eventi teatrali e musicali. «… Obiettivo della nostra Associazione» spiega Fulvia Salvi, presidente di MediCinema Itallia «è quello di rafforzare il concetto di ‘Terapia del sollievo’ per pazienti e familiari attraverso la cultura come strumento curativo.

Realizziamo piccole sale cinematografiche e per spettacolo nelle aree che ci vengono assegnate dalle strutture ospedaliere, con posti a sedere e adeguati spazi speciali per pazienti in carrozzina o allettati.» Una lodevole iniziativa che solletica inevitabilmente la curiosità di rivisitare il modo in cui la settima arte ha raccontato drammi e speranze della malattia.

Nell’era del salutismo al silicone dove il motto mens sana in corpore sano si è tradotto in Più sani, più belli e la prospettiva di vita si è mediamente allungata, raccontare la condizione del malato attraverso la lente cinematografica è sempre più complesso. Ciò nonostante, negli ultimi anni alcuni registi affrontano questa delicata tematica con estrema lucidità e poca enfasi, rendendo palpabile la sofferenza dei degenti insieme ai limiti e ai piccoli miracoli della medicina in corsia. Inoltre, a sfoltire gli strascichi del pietismo a buon mercato e del moralismo più bigotto contribuiscono alcuni autori i quali, forti della loro esperienza personale, raccontato la malattia dall’interno, ovvero trasponendo sullo schermo le sofferenze e il dolore di chi ha vissuto il dramma sulla propria pelle. Ne sono un esempio il grande Nicholas Ray, minato da un tumore, che coadiuva e affida a Wim Wenders il compito di filmare la sua agonia in Nick’s Movie – Lampi sull’acqua (1980) e il francese Cyril Collard, affetto da AIDS, regista dell’autobiografico e sconvolgente Notti selvagge (1992). Film verità che fissano su pellicola gli ultimi giorni dei due artisti: Ray, paradossalmente interprete della propria fine, e Collard nel ruolo di cineoperatore sieropositivo alle prese con una doppia relazione: con una diciassettenne, alla quale non confessa subito la malattia e con un aitante rugbista. Da citare anche l’incisivo lungometraggio di Nanni Moretti che nel 1993, nel terzo episodio di Caro diario, rivive con delicatezza i momenti più importanti di un male fortunatamente sconfitto.
Tuttavia, prima di affrontare con una certa assiduità problematiche che mettono sul tavolo il complesso legame tra medicina, etica e morale, il cinema sforna una lunga serie di film volti a raccontare la malattia da angolazioni diverse. Si passa così da medici e ausiliari ligi al dovere e contornati da una sorta di aureola eroica come ne La cittadella (1938) di King Vidor e Le piogge di Ranchipur (1955) di Jean Negulesco al comico Il medico della mutua (1967) di Luigi Zampa. Dal propagandistico La storia del dottor Wassel (1944) di Cecil B. De Mille al commovente Qualcuno volò sul nido del cuculo (1975) di Milos Forman, con un formidabile Jack Nicholson, dal toccante Un angelo alla mia tavola (1990) di Jane Campion fino all’enfatico La città della gioia (1992) di Roland Joffé. Dalla drammatica e solitaria convivenza con un male inguaribile del protagonista di Vivere (1952) di Akira Kurosawa alla scoperta della propria malattia da parte di un chirurgo in Un medico, un uomo (1992) di Randa Haines. Un film quest’ultimo che si rifà alla personale esperienza vissuta dal dottor Ed Rosembaum, interpretato da un sempre credibile William Hurt, peraltro già raccontata dallo stesso nel libro omonimo. Quando Rosembaum scopre di essere affetto da un tumore comincia lentamente a riflettere sulla condizione dei malati, a vedere le tante anomalie delle strutture ospedaliere e la poca sensibilità con la quale i degenti spesso vengono trattati. A cui segue il lungometraggio ispirato alla storia vera di Patch Adams (1999) diretto da Tom Shadyac, con l’esuberante Robin Williams nei panni di un ‘medico clown’ pronto a ribaltare senza esitazione le convenzionali regole ospedaliere: travestimenti, terapia del buonumore, attenzione vera nei confronti dei pazienti divengono la pratica quotidiana.
Da segnalare inoltre il drammatico Non ti muovere (2004) diretto e interpretato da Sergio Castellitto, con Penelope Cruz e Claudia Gerini, tratto dal romanzo di Margaret Mazzantini, e l’inquietante Non Lasciarmi (2010) di Mark Romanek con Carey Mulligan, Andrew Garfield e Keira Knightley, in cui si racconta la sconvolgente vicenda di un gruppo di giovani orfani educati per divenire donatori di organi: che ne sarà di loro? cosa significa la parola ‘donatore’? Questi i profondi interrogativi posti nel best seller di Kazuo Hishiguro a cui il film s’ispira.
Completano la ricca galleria di titoli una serie di pellicole demenziali quali per esempio L’ospedale più pazzo del mondo (1982) di Garry Marshall o fantascientifiche come Outbreak – Virus letale (1995) di Wolfgang Petersen.
Una vasta gamma di situazioni, insomma, che analizza ‘la qualità della vita’ dell’individuo quando questi è in una condizione di persistente sofferenza fisica e psicologica. Il cinema ricostruisce a suo modo le disfunzioni, o le rare eccellenze, del sistema sanitario, spesso sollevando anche pesanti interrogativi di natura etico-morale, una fra tutte la questione aperta sull’eutanasia. Temi d’ineludibile attualità rispetto ai quali la settima arte, pur con tante inesattezze, ha avuto e ha il merito di mantenere viva l’attenzione contribuendo alla spasmodica ricerca di risposte in qualche misura attendibili. E ora, se le storie costruite con la camera da presa possono raggiungere quanti combattono la malattia ogni giorno negli ospedali, è lecito affermare che un altro piccolo passo in avanti il cinema l’abbia compiuto.

Giuseppe Colangelo

(Per gentile concessione della rivista “Qui Libri”, BookTime Editore, Milano 2014)

 

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