I “Testi teatrali” di Giuseppe Latronico

Contestuale alla recente pubblicazione del romanzo “Una colpa collettiva” è una raccolta di quattro storie pensate sotto forma di rappresentazione scenica, che esce sotto il titolo di “Testi teatrali”, sempre a cura di Giuseppe Latronico.

Testi teatrali di Giuseppe Latronico – E’ la prima volta che l’autore si cimenta in una scrittura destinata al palcoscenico, dopo un percorso letterario che aveva assunto, in passato, le diverse forme del saggio e del romanzo.
Permangono nella mia memoria, in particolare, i tre saggi sui “Canti popolari stiglianesi”, “Le parole in disuso del dialetto stiglianese” e i “Profumi di Lucania”, che sono accomunati da un unico filo conduttore: un tentativo di recupero delle ‘radici’ perdute, di una identità socio-culturale di appartenenza, ricca di antichi valori umani e spirituali, che si è andata dissolta, forse, in modo irreversibile.
Testi teatrali” è una raccolta che lega in un unico libro quattro vicende separate, che si snodano su binari indipendenti, ma accomunati dalla medesima riflessione ‘esistenzialistica’ dell’autore su diversi aspetti della vita umana.
La storia che ha lasciato in me maggiori strascichi di riflessione è l’ultima della serie, dal titolo emblematico: “Meno male che ci siamo incontrati”. Due soli personaggi per una vicenda che si snoda in quattro atti, di una coppia sposata da alcuni anni alle prese con un momento di crisi, dettato dalla routine di tutti i giorni. La riflessione ‘esistenzialistica’ è sul tempo che scorre inesorabile e sull’impossibilità di fermarsi ad apprezzare ciò che conta davvero, tutti presi come siamo dai ritmi incessanti di una società frenetica, febbrilmente orientata ad un efficientismo senza posa. Ciò che mi ha conquistato è il finale della storia, che senza entrare nel dettaglio è una riscoperta del valore del loro essere coppia, a fronte di ciò che scoprono esserci nel mondo circostante, fatto di vacua tensione verso il nulla, dove pullulano ‘monadi’ leibniziane incatenate alla categoria del singolo, che fa dire ai protagonisti un attimo prima che cali il sipario: ”Meno male che ci siamo incontrati!”

I Testi teatrali di Giuseppe Latronico

La storia più divertente, in cui emerge maggiormente la vena ironica dell’autore, per poi lasciare spazio a una riflessione di senso, è certamente “Natale”.
Ci sono tre personaggi che, in tre atti, intavolano una vicenda che ha per protagonista la festa imminente del Natale e, per sfondo, una riflessione sull’esistenza di Dio.
Marito e moglie si preparano alla festa pensando ai regali che riceveranno sotto l’albero: lui pensa a farsi un regalo da solo, visto che la moglie omette di farlo per mancanza di idee. Si regala perciò un libro di poesie. L’aspetto ironico della storia aumenta quando il marito si imbatte in un pazzo all’interno della metro, il quale prima lo spaventa con i suoi modi assai strani e poi lo diverte, confidandogli i suoi problemi.
E’ un poeta abbandonato dalla moglie, che perciò è entrato in crisi fino all’esaurimento, ma in compenso si è riavvicinato a Dio, in cui da giovane non credeva, dopo che è stato deluso dagli uomini. Anche qui il finale è un colpo di scena, perché l’uomo sposato scopre che l’autore della poesia che lo ha più colpito, nella raccolta del suo ‘auto-regalo’ di Natale, è proprio quel pazzo della metro. Questi lo confiderà alla coppia al terzo atto, precisando di essere passato dal vivere il Natale nei “sobborghi dei suoi pensieri”, cioè senza più sentirlo come da bambino, perché “Cristo è nelle cose di ieri”, cioè in una fede del passato che aveva smarrito, a una nuova stagione di vita in cui, insoddisfatto delle persone, “ il mio essere tende a trascendere e libra verso il soprannaturale”.
La domanda nasce spontanea: è forse, anche dell’autore, la nostalgia di Dio?
“Donne nel tempo” è una storia particolare che si snoda in tre atti, ognuno dei quali si articola in un dialogo di una donna con la propria coscienza, così nell’ordine: una vecchia signora, sua figlia e la figlia di sua figlia.
Ancora una volta la riflessione dell’autore prende spunto da un problema esistenziale: quanto possono arrivare ad incidere le influenze e i condizionamenti di una società, sempre più disumanizzata alla mercé di pseudo valori di efficientismo funzionale, anche in chi ha ricevuto una buona educazione ed è di sani principi.
Come sono rispettivamente la figlia e la nipote dell’anziana signora, che si trovano a dover fare i conti con i sensi di colpa, nel dialogo serrato con la loro coscienza che le martella, a proposito del fatto che la prima ha abbandonato la madre in un ospizio per poter far fronte ai suoi impegni di lavoro e di madre. Purtroppo si renderà conto di aver sbagliato solo quando è troppo tardi, cioè quando sua madre sarà morta. E la seconda, che pure ha trascurato i suoi affetti familiari in nome di istanze che provenivano dall’esterno, presa dai morsi della coscienza, che la incalza nel dialogo, ora si pente.
Il finale è commovente, perché cede lo spazio ad un abbraccio finale carico di tensione, della giovane con sua madre, riuscendo così ad evitare che la storia si ripeta, di quanto accaduto ai danni della nonna.
L’ultimo testo teatrale è in realtà il primo, sia in ordine di collocazione che per complessità di struttura, andando a riempire, da solo, quasi la metà dell’intero libro: “Quello che Lucio Battisti non sa di aver perso”.
E’ delle quattro la storia che più risponde ai canoni di un’opera teatrale, ricca di personaggi, ( ben nove sulla scena e una voce narrante dietro le quinte ), con una giusta alternanza di momenti di dialogo, ben strutturati, e momenti di azione scenica in movimento.
L’idea, nata quando il cantante era ancora in vita, è di quelle surreali: il protagonista Giuseppe ( alter ego dell’autore? ) pensa di scrivere a Lucio Battisti, autocandidandosi a suo nuovo paroliere dopo l’era aurea, rimasta insuperata nella storia della musica italiana, della coppia Mogol-Battisti.
Da qui lo snodarsi di tante vicende che coinvolgeranno il gruppo di amici di Giuseppe, che si lascia ‘contaminare’ dal sogno ( non a caso la musica di apertura è “Umanamente uomo-il sogno”), tanto che ognuno si mette a inseguire il proprio, a ruota, lasciando Giuseppe da solo, alle prese con un padre scettico, che si rivelerà, purtroppo, alla lunga profetico.
Gli arriverà la ricevuta di ritorno, della sua raccomandata, firmata di suo pugno dal grande cantante, ma quella sarà l’unica soddisfazione per Giuseppe. Anche i suoi amici torneranno tutti, dai loro sogni, a mani vuote. Uno spunto per ribadire, alla fine, il grande valore del musicista scomparso di Poggio Bustone. E che a me fa cogliere l’occasione per rivelare, qui, un segreto inconfessato: mi recai al suo funerale a Molteno, in Brianza, per l’estremo saluto.
Era settembre. Un po’ prima del giorno 29, come in una delle sue canzoni più belle.

di Giovanni Fortuna
12.8.15

 

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