Adorabili clochard

Non c’è in Italia città di provincia o paese, che non abbia espresso nel corso della sua storia alcuni personaggi popolari estrosi e bizzarri, che sono rimasti impressi nella memoria collettiva per la loro singolarità e la cui narrazione si è tramandata per generazioni, assumendo col trascorrere del tempo sempre più i toni della favola o della leggenda. A Parma è vivo il ricordo, fra gli altri, di , meglio noto come al mat (il matto) Sicuri, che Giorgio Torelli definisce «unico, intollerante, libertario, polemico, vestito di indipendenza dal contesto, rivoluzionario senza partito né fazione, un vivo fuori della storia comune, un giacobino contemporaneo, il buon selvaggio ciclista».
Un personaggio, dunque, che una città umorale e sanguigna, stravagante e umana, beffarda e autoironica come la città ducale ha finito per amare, considerandolo alla fine degno di essere celebrato con una scultura, realizzata da Maurizio Zaccardi e collocata il 30 ottobre 2004 in Piazzale della Macina, un angolo appartato ma non nascosto del centro storico.
Sicuri era nato a Parma il 30 ottobre 1907 da Ubaldo, un commerciante di cereali, e da Elvira Alfieri, stiratrice. Visse la sua infanzia, con la sua numerosa famiglia (aveva tre fratelli e due sorelle), in borgo delle Grazie.
Dopo aver frequentato la scuola elementare San Marcellino e poi alcuni corsi serali, conseguendo la licenza della settima classe, incominciò a svolgere diversi lavori: saldatore autogeno presso la ditta Mezzi, fece poi l’aiutante di imbianchini o muratori, il garzone in botteghe di barbiere, mugnaio e infine di fornaio.
Nei suoi continui giri come garzone presso il forno Zoni di via Farini, si imbatté nella persona che avrebbe dato una svolta decisiva alla sua vita, Dante Spaggiari.
Era questi un geniale incisore di metalli, titolare di un laboratorio sito nella canonica della chiesa di San Vitale, dove lavorò per oltre cinquant’anni. La sua bottega era molto frequentata, anche da noti rappresentanti del mondo dell’arte e della cultura cittadina, attirati dalla sua forte personalità, dal suo eloquio ricco di aforismi, dal suo atteggiamento di grande indipendenza. Benché fosse autodidatta, inoltre, lo Spaggiari era in possesso di una buona cultura e di una memoria prodigiosa, che gli consentiva di recitare con naturalezza interi canti della Divina Commedia. Amava, perciò, intrattenersi parlando di letteratura, filosofia, musica, teatro e intorno a lui si formò una sorta di cenacolo, soprattutto di giovani, sicché, un po’ celiando, qualcuno lo definì il Socrate di Parma, comunque un «Maestro di libertà cittadina».
Anche il giovane Enzo, attratto dal fascino dello Spaggiari, si fermò sempre più spesso e più a lungo presso la piccola finestra che si affacciava sul laboratorio ad ascoltare le conversazioni dell’incisore filosofo, che finì per diventare per lui un riferimento imprescindibile. Grazie alla frequentazione dello Spaggiari, incominciò a prendere confidenza con i classici della letteratura e della filosofia e a leggere le opere di autori che gli sarebbero col tempo divenuti familiari, come Torquato Tasso, Giosue Carducci, Benedetto Croce e, sopra tutti, Giacomo Leopardi.
Anche in età avanzata Sicuri non esitava a riconoscere che «c’la so fnestren ‘na l’era la me scolä, la me universitä”. Ma, evidentemente, egli portò presto alle estreme conseguenze l’insegnamento del “Maestro” riguardo alla opportunità di vivere una vita libera da ogni sorta di condizionamenti.
Cominciò così la sua esistenza di clochard e giorno dopo giorno diventò sempre più familiare ai parmigiani la figura di un ometto forte e barbuto che, vestito di stracci o di brandelli di sacchi e con in testa un cappello di carta di giornali, si aggirava, irrimediabilmente scalzo, per le strade cittadine. E magari, di tanto in tanto, riempiva l’aria con la sua bella voce baritonale, che un tempo gli aveva consentito di far parte di una corale per ragazzi e di alimentare sempre la sua passione di melomane.
Enzo Sicuri Inseparabili, con una bici e una carriola su cui trasportava i cartoni che raccoglieva e vendeva per racimolare qualche soldo, poche cianfrusaglie, che costituivano tutto il suo patrimonio e il suo corredo. Ma, per il suo sostentamento, perlopiù si accontentava degli avanzi, che gli erano offerti benevolmente dagli osti e dai trattori compiacenti e che consumava quasi sempre in piedi o appoggiato a qualche muro.
Per qualche tempo ebbe fedele accompagnatore Gino, un barboncino orbo di un occhio, che, dopo aver trascorso la notte in casa con il padrone, al mattino puntualmente rintracciava nelle vie del centro il Sicuri e non si staccava da lui, seguendolo nelle sue quotidiane peregrinazioni.
In tal modo, ricordando le parole del poeta dialettale Giovanni Casalini, «E Sicuri …coi pè al sbordacia i marciapiè», per dire che Sicuri, a piedi scalzi, sporca i marciapiedi.
A sera, dopo il frenetico diurno vagabondare, anche per lui il meritato riposo. E il sonno del giusto era consumato in grosse scatole di cartone nelle stradine vicine al duomo, o sulle scale del battistero, o sotto i portici di strada Farini, o in androni di antichi palazzi del centro. Ad esempio, della filiale Fiat, per cui egli sosteneva, come ricorda Baldassarre Molossi, di essere un «inquilino» dell’ingegnere Arturo Balestrieri, il responsabile della filiale stessa.
Molto spesso trascorreva le notti all’addiaccio, avendo dunque come tetto il cielo e dialogando con le stelle come il pastore errante dell’Asia dell’amato poeta di Recanati. E in quel silenzio notturno, egli confidava al giornalista de La gazzetta di Parma Giorgio Gandolfi, si sentiva il padrone della sua città, «la sua vera e unica amica».
Durante gli anni del fascismo, naturalmente, tutto ciò aveva incominciato a creare problemi, destando le attenzioni delle autorità, che incominciarono a sorvegliare il Sicuri, considerandolo un pericoloso ribaldo o comunque censurandone il comportamento sconveniente al pubblico decoro.
In un rapporto degli agenti della Pubblica Sicurezza al Questore del 3 febbraio 1943, si segnalava che egli era «spesso in compagnia di elementi sovversivi» e diventava «facile preda di questi ultimi per commettere atti inconsulti». Era da ritenersi, inoltre, un disfattista, perché si esprimeva «spesso in pubblica piazza con frasi e modi contrari alla situazione militare». Il solerte e acuto brigadiere di P.S., estensore del rapporto, non tralasciava di completare il ritratto con un linguaggio burocratico tanto perentorio nei toni quanto incerto sul piano grammaticale: «… è ritenuto elemento scandaloso e sporcaccione per atti osceni verso minori …. È ozioso e vagabbondo (sic!) e vive ai margini dell’aiuto di caserme militari ove si reca per chiedere minestra ed altro». E, infine, con una conclusione che non si sa se voleva essere una scusante o un’aggravante, affermava: «Si esclude che il medesimo sia ritenuto un esaltato o un demente ma bensì un essere sporco anche perché lo stesso vive randaggio (sic!) e senza famiglia».
Dopo poco più di due mesi, Sicuri era di nuovo oggetto delle attenzioni delle autorità, perché risultava disertore dal 4 marzo, non essendosi presentato al Reggimento di Fanteria di Piacenza, dove era stato destinato.
Faticosamente rintracciato, partì con sei mesi di ritardo e, processato dal Tribunale di Milano, fu condannato a due mesi di cella. Ma la condanna non gli pesò più di tanto, perché in cella la solitudine gli teneva compagnia e gli permetteva di pensare. Molto soffrì, invece, durante il servizio militare prestato prima Piacenza e poi ad Alessandria, per essere costretto a calzare le scarpe, che da tempo aveva dismesse, convinto com’era che «a stär deschälza l’è tutta salute».
Un disagio pari Sicuri lo provò solo negli ultimi anni della sua vita, quando fu costretto ad essere ricoverato in ospedale prima e poi alla casa di riposo “Romanini”, dove morirà nel 1988.
Qui, annota Lorenzo Sartorio, «rifiutò subito di uniformarsi agli altri ospiti e, poi, lui un pigiama non l’aveva mai visto. Ed allora si giunse a un compromesso con il premuroso personale medico e paramedico, tant’è che il bizzarro paziente accettò di farsi avvolgere in un lenzuolo bianco come un antico senatore romano, non rinunciando al cappellino di carta».
E, conferma Tiziano Marcheselli, che più di ogni altro lo conobbe da vicino e ne raccolse molte confidenze, all’ambiente della casa di riposo l’impenitente girovago si adeguò, «riservandosi magari qualche piccola iniziativa, come il girare a torso nudo o tenere una coperta di giornali sul letto. Così il raccoglitore di carta, cartoni, scatole e cassette si è trasformato in ornitologo, appassionato preparatore del becchime per i passerotti e le tortore del grande finestrone: basta un pezzetto di pane e via, l’uccellino scatta nella libertà dello spicchio di cielo sovrastante il cortile. E gli occhi di Sicuri lo seguono fin che possono».

Un personaggio pittoresco come Sicuri fa rivivere, d’incanto, altre persone singolari, che appartennero al mitico mondo dell’infanzia nel piccolo borgo lucano e che da allora si sono abbarbicate alle pareti della memoria.
Chivà, ad esempio, un vecchio dalla corporatura tozza, gli occhi ombrosi, il viso ricoperto di una lanugine giallo-paglierina, le mani scure ed enormi. In testa un berretto logoro e bisunto di colore indecifrabile, addosso immancabilmente, anche nelle ore della canicola, un pastrano privo di bottoni e incartapecorito che lasciava intravedere un grosso spago a legare i pantaloni sporchi e sformati, ai piedi un paio di scarpe vecchie e indistruttibili. Taciturno, si aggirava lentamente per le vie di Stigliano e il suo approssimarsi era annunciato dalla fuga precipitosa dei ragazzi che ne avevano terrore.
Altrettanta paura sprigionava Rocco Patanone, la cui figura imponente e solitaria compariva improvvisa, protetta da una impenetrabile misantropia. Di lui si raccontava, favoleggiando, che da giovane nella Merica aveva tentato la strada del successo nel mondo della boxe. Finito poi inopinatamente nel giro delle bande della Mano Nera, che estorcevano il pizzo agli immigrati delle comunità italiane, era stato costretto a ritornarsene in Italia, finendo per vivere una vita randagia nel paese natale. Dunque, uno dei tanti falliti delle migrazioni transoceaniche, che depauperarono molte regioni italiane all’inizio del Novecento!
Entrambi, Chivà e Rocco, erano minacciosamente evocati dalle mamme ai loro piccoli, quando essi si mostravano recalcitranti ad andare a letto, ad alzarsi per andare all’asilo o a scuola, a farsi lavare e pettinare, a sottoporsi al rito mensile di trangugiare il famigerato e nauseabondo olio di ricino. I bambini si acquietavano di colpo, perché, a causa delle fosche raffigurazioni materne, Chivà e Rocco erano diventati dei babau, veri e propri incubi, che s’insinuavano persino nei placidi sogni notturni.
Ora, riavvolgendo il nastro della memoria a distanza di oltre sessant’anni, si pensa con raccapriccio all’ingiustizia patita da due buoni diavoli che diventarono senza alcuna colpa gli orchi delle favole.
Infine, più familiare, perché abitò per alcuni anni in un container non lontano da casa mia, la figura di un altro “diverso”, A. C., che più di tutti potrebbe rassomigliare al mat Sicuri.
Non certo per l’aspetto fisico, perché A. C. era magro e slanciato. Non per il look, perché a suo modo era attento alla forma e amava alternare nel corso della giornata un abbigliamento sciatto e trasandato ad altri di pretenziosa eleganza, in cui spiccavano vistosi papillon, o sgargianti seppur consunte cravatte, spesso originali scarpe, che ad un esame attento lasciavano indovinare che all’origine erano state bicolori, secondo la moda di un tempo.
Come Sicuri a Parma, a Stigliano A. C. era considerato un matto ed, in realtà, egli non solo non se ne adombrava, ma sembrava assecondare, sornione, questa opinione popolare per fini suoi reconditi e inconfessabili.
Aveva un buon livello d’istruzione, rivelava disordinate ma non trascurabili letture e, soprattutto, era dotato di una non comune intelligenza creativa e di notevole abilità manuale. Per questo amava costruire ninnoli e manufatti vari di poca o nulla utilità, ma non privi di grazia o addirittura incantevoli, in particolare pupi siciliani di metallo di varia foggia e misura che poi trasportava su un carrello, da lui stesso costruito, per le vie del paese.
Il suo palcoscenico abituale era il corso, dove spesso passeggiava solitario nelle ore più impensate, magari con un mangianastri o con una tromba sotto il braccio, che per strada però suonava raramente.
Preferiva, infatti, nelle sue interminabili scorribande dar vita a lunghi monologhi oppure a stupefacenti conversazioni con interlocutori prestigiosi. Non era raro sentirlo dialogare ad alta voce e in maniera vivace e appassionata con Galileo Galilei su impegnative questioni astronomiche, con Dante di poesia, con capi di Stato e di governo di politica. Spesso si accalorava nel sostenere le sue argomentazioni e talora non trascurava di annotare alcune riflessioni dei suoi virtuali interlocutori su un libretto che portava con sé per ogni evenienza.
Animato da un forte desiderio d’indipendenza, era capace di sorprendere con battute che rivelavano una forte dose di ironia e, paradossalmente, una logica stringente. Ne può far fede un simpatico episodio di cui fui testimone e… vittima.
Incontratolo una mattina, come spesso capitava, prima di recarmi a scuola, mi invitò, ammiccante, a prendere il caffè. Era il suo modo abituale ed elegante di chiedere, perché rifuggiva dall’elemosinare. Avevo trascorso una notte insonne, proprio a causa sua, perché aveva, imperterrito, suonato la tromba fino all’alba. Acconsentii ad offrirgli il caffè, non senza avergli fatto prima notare che in quel caso non se lo sarebbe meritato, avendomi costretto ad una notte da incubi. Non fece una piega e sembrò anche rammaricato. Tenne, però, a spiegarmi le ragioni del suo comportamento. Era disperato, perché, la sera precedente durante la festa di Santa Teresa, era stato derubato del suo nuovo mangiadischi, che molti sacrifici gli era costato per acquistarlo. «Prof, -mi disse- ero sconvolto al punto che avrei dovuto sbattere la testa contro il muro o sfogare la rabbia suonando la tromba. Non avevo altre alternative!». Dopo una breve pausa ad effetto, studiata con perizia da grande attore, concluse chiedendomi: «Tu, sinceramente, cosa avresti fatto?». Risposi candidamente che avrei optato per la seconda soluzione… Non mi rimase che fare chapeau al suo rigoroso ragionamento e accompagnarlo al bar, per offrirgli la colazione.
Anche A. C. ha finito pochi anni fa i suoi giorni in una casa di riposo, ma a lui nessuno ha pensato finora, né penserà mai in futuro, di erigere un monumento, che solo una città “di matti” come Parma poteva dedicare a “un matto” come Enzo Sicuri. Ad A. C., in ogni caso, non mancherà, finché non se ne spengerà il ricordo, la calda simpatia di chi l’ha conosciuto.

Angelo Colangelo

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