Storie di Lucania, isola di confino

A 80 anni dall’arrivo in Lucania di Carlo Levi, confinato prima a Grassano e poi ad Aliano fra il 1935 e il 1936, non si possono non ricordare alcuni effetti dell’istituto del confino, adottato dal regime fascista per colpire delinquenti comuni o mafiosi, ma soprattutto per neutralizzare la lotta di coloro che, sempre più numerosi, avversarono il regime dopo l’efferato assassinio di Giacomo Matteotti.
Dopo il 1927, anno dell’entrata in funzione del Tribunale Speciale per la difesa dello Stato, e fino al 1943 migliaia di persone furono costrette a lasciare il proprio paese e la propria famiglia, per essere relegate in lontanissime irraggiungibili isole o in sperduti villaggi dell’Appennino.
Nel 1930, ad esempio, a Stigliano, paese dell’alta montagna materana, dopo i primi arrivi registrati già nel 1928, giunsero un ambulante di Savona, un commerciante veneziano e un insegnante di fisica milanese. Ad Alianello, la minuscola frazione di Aliano, fu destinata invece una levatrice di Reggio Emilia, che vi resterà per oltre un anno. Per tutti gli anni Trenta il fenomeno s’incrementò, assumendo dimensioni particolarmente rilevanti soprattutto ad Aliano, che tra il 1932 e il 1942 ospitò ben 35 confinati, perlopiù per motivi politici.

quadro di Alfredo Cassone

quadro di Alfredo CassoneLa comminazione della pena confinaria, come ricorda fra gli altri Leonardo Sacco nel suo documentato saggio Provincia di confino del 1995, provocò, dunque, una vasta migrazione interna e la nostra regione ne fu particolarmente interessata per la sua perifericità, per la scarsità di vie di comunicazione, per le condizioni sociali arretrate.
Dei non pochi confinati illustri in Lucania molto si è scritto e si sa: da Carlo Levi, che dopo la sua permanenza forzata in Lucania produsse il celeberrimo Cristo si è fermato a Eboli, a Manlio Rossi-Doria, che, confinato a San Fele, sempre ricorderà «la vita di paese con i contadini e i pochi confinati, con la speranza crescente della fine del fascismo», a Camilla Ravera, che, destinata a Montalbano Jonico, fu trasferita a San Giorgio Lucano, dove tra il dicembre del 1936 e il maggio dell’anno successivo, scrisse il bel romanzo Una donna sola.
Piemontese come Carlo Levi e Camilla Ravera, seppur molto meno noto, fu , confinato in Lucania, dopo una breve permanenza coatta a Menton, in Francia. Nato a Cuneo nel 1898 da Ernesto e da Elvira Pasero, Cassone frequentò le scuole tecniche della sua città e poi si diplomò nel 1925 all’Istituto di Belle Arti di Milano, dove si era trasferito subito dopo il primo conflitto mondiale.
Dal 1939 insegnò disegno nelle scuole di avviamento di Ventimiglia e in quel periodo manifestò le sue idee antifasciste, per cui fu condannato al confino a Pisticci, dove rimase sino alla fine della guerra e dipinse nella chiesa di San Rocco, costruita pochi anni prima, ben nove pale che raffiguravano episodi salienti del grande Santo di Montpellier.
Ma, durante la lunga permanenza in Lucania, come capitò ad altri confinati che furono costretti a trovare un lavoro per provvedere al proprio sostentamento, anche Cassone dovette industriarsi e così mise a frutto la sua arte pittorica, dipingendo per privati, magari barattando, pregevoli quadri raffiguranti paesaggi, nature morte o soggetti sacri.
Ne è testimonianza il suggestivo ritratto del contadino Rocco Lasaponara in groppa alla cara inseparabile giumenta Sinella, realizzato in cambio di un tomolo (40 kg) di grano. L’opera è stata miracolosamente recuperata e fatta restaurare dal nipote Rocco, oggi settantottenne e già dirigente del Comune di Stigliano, dopoché per molti anni essa aveva rischiato addirittura di perdersi durante i frequenti trasferimenti della famiglia nelle masserie dislocate nel territorio: Monticchio, Marra, Deleo ed altre ancora.
Trasferitosi dopo la guerra ad Alba e successivamente a Bra e poi a Boves, dove morì nel 1975, Cassone realizzò opere pittoriche di apprezzabile livello, privilegiando la tecnica dell’acquerello. Una grande tela, dedicata al Beato Sebastiano Valfrè, è conservata presso il santuario di Verduno ed è considerata l’opera più significativa del. pittore cuneese, che, come tanti altri oscuri confinati, aveva lasciato tracce non irrilevanti della sua presenza nei luoghi che lo accolsero in un periodo non facile della sua esistenza.

Angelo Colangelo

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