Rom senza bussola

Conobbi Bologna negli anni settanta. Me ne innamorai subito, e non perché “grassa, turrita, dotta”, ma per i suoi vicoli oscuri e untuosi, segnati da richiami odonomastici vecchi, artigianali e corporativi, che rinviano, senza equivoci, ai sudori e alle fatiche della gente che fu. E, poi, Zangheri, Gallino, Bonago, Vasco, Dalla, e altri ancora: le orme fresche di questa città dal dialetto incomprensibile, ma armonico e sensuale, nel suo rotacismo apocopato alla francese, “sporcato”, qua e là, da cadute vernacolari mai volgari, anche quando ammiccano a situazioni estremamente imbarazzanti.
Via Agucchi, è una strada lunga e tortuosa, che ospita al secondo numero dispari (civico n. 3), ad un passo da via Emilia Ponente, una trattoria, Osteria della Pace, che vanta la sua inamovibilità da circa un secolo. Qui, al numero civico pari 60, vivo, ad intermittenza, da due anni. Di fronte, c’è una pizzeria gestita da due giovani napoletani panciuti, a sinistra un bivio, a destra un forno, in via Mantegna. Poi, dopo una cartoleria, una tabaccheria e una biscotteria sul lato opposto, eccomi seduto al tavolo dell’Osteria della Pace. La titolare si chiama Daniela, assistita da Michele, un ragazzone veneto, taciturno e tozzo, che ritrova il dono della parola e della gestualità solo quando parla della Juventus, o quando fucila il sindacato, nelle sue sparate battute demagogiche. L’interno, anche se esposto ad ovest, vive sempre nella penombra, che oscura l’arredo kitch, ed esalta il lontano, indecifrabile sapore francese dei quadri, delle bottiglie e della polvere. Daniela è una vedova bella, non allegra, con gli occhi assetati di affetto, dai quali scorrono storie tristi e raccapriccianti, che racconta a pezzi, a pochi e a fatica, con la voglia suicida di andare comunque avanti. Ai suoi tavoli, ho incontrato un pulviscolo di gente, che sento di definire un campione semilavorato di quel vago oceano antropologico, nel quale, per stanchezza, raccogliamo la sintesi grezza di noi, umanità cosiddetta …
Dai tempi della “Nausea”, uso uscire il primo pomeriggio, spinto dall’oscuro bisogno di guardare, senza vederli, quelli che a quell’ora depongono le squame della loro identità per respirare il sorso selvaggio di una normalità non spiata dal controllo sociale. All’ombra di un sole asfissiante, o ascoltando il crepito della neve sotto i piedi, io e loro, a quell’ora, siamo gli ignari e indegni protagonisti di un Cult Movie, il cui regista è il tempo irregolare della noia e della depressione sparsa nell’aria. Sono seduto all’osteria, sono le tredici di un pomeriggio di autunno tiepido, e passa Stefy, una ragazza dagli zigomi alti, denti bianchi, occhi da balena, e l’istinto a saltellare come una gazzella fuggita da un circo. Si infila in un Centro di Bellezza, il Pluricenter, che sfida con le sue insegne spocchiose il logo sbiadito dell’osteria, che gli sta di fronte. Seduto lì, conto senza sommarli, bimbi neri, padri giganti e mamme variopinte, che per patto non scritto, sfilano sul marciapiede opposto, siglando una sottile linea di demarcazione e di apartheid …
È la volta di musulmani, cinesi, indiani, pachistani …, una folla rettilinea di stoffe, lino, seta e turbanti, sagome umane semoventi, che interrompono il passo, per favorire l’ingresso al Pluricenter di uomini tatuati e muscolosi, donne in debito con le chiappe, signore obese e storte, che si rifugiano lì, per sciogliere nell’acqua della piscina o nel solarium il loro ingenuo desiderio di eternità. Tutti, bianchi, neri, gialli, rom, sfilando davanti alla mia opaca lente di ingrandimento, fremono, idioti e meccanici, nelle protesi digitali degli smart-phon: il nuovo “termine medio” dell’umanità democratica, che turba, forse, il sonno del vecchio Aristotele. Bologna è anche città papalina e ironica; e cosi dedica il Parco di Esselunga a Fortebraccio, e la via che gli sta alle spalle a Montanelli: entrambi, idealmente trafitti da via G. Cervi, il Maigret Italiano, che in vita avrebbe dovuto indagare su questi stupidi apparentamenti odonomastici. Ma, ecco Carlo. È un operaio metalmeccanico in pensione, taciturno e gentile. Parla volentieri con me, e io con lui. Ci legano cento parole, per me troppe, per lui poche, forse. Ma io da tempo ho investito per necessità e resa nella Banca dell’Afasia, pagando tassi di interessi molto alti. Inverno, ora incerta pomeridiana. Rari fiocchi di neve, e il mio senso di angoscia, quando non trovo l’est e l’ovest, sotto questo cielo di piombo che oscura il sole e governa piatto e indisturbato sulla pianura detta padana.
“Buondì”, mi dice Igenia, la ragazza della tabaccheria, ed io sbando, perché non l’avevo vista arrivare. A Igenia, manca per fortuna la seconda sillaba (fi), di Ifigenia che l’ha salvata da un inutile quanto anacronistico rito propiziatorio. Buondì, come la chiamo io, è bella quanto Katia, una donna di classe, blindata nel suo silenzio, che rompe con la dolce innocenza di un bimbo, quando la fissi negli occhi, o le guardi le labbra grinzose e senza trucco.
Stefano e Francesca, riempiono una cantica particolare nella frammentata coreografia di questo vespaio umano che mi scivola gratuitamente sotto gli occhi. Vivono in un palazzone del comune, che insieme ad altri orrori urbanistici ed architettonici, vietano ai colli e al Reno di “sfociare” in questo pezzo di strada, dove, mi dicono, un tempo si ascoltava il fresco e il fruscìo del fiume che per vendetta e gelosia, scivola sotto le gracili palazzine dai muri esili, trasformandole in frigo e termo sotto la spinta di imprevedibili variazioni climatiche. Francesca ha occhi neri e profondi, che sfidano il verde chiaro del mare della sua Calabria, da cui proviene, carica di sospiri trattenuti, che distende all’aria, in rare occasioni, quando Stefano, il suo compagno, suona la chitarra, concedendo una tregua alle sentinelle della coscienza.
È in un precoce assaggio d’estate che conosco Giancarlo, agente di commercio, comunista deluso, passato a 5 stelle, che mi chiede il significato di “Redde Rationem”, avendo saputo che sono, sono stato, un professore … Io l’ho pregato di chiamarmi Rocco.
E cosi …, i giorni passano, vengono, sbiaditi o cattivi, come l’incerto destino di un apolide alla ricerca di un pezzo di terra ferma per il riposo di una sola notte senza pensieri.
La mia posizione di bagarino pomeridiano mi fa l’onore di conoscere Franca, rude ma generosa operaia divorziata, Jack, con tracce e turbe psichiche rimediate in un collegio di Gesuiti, Luca odontotecnico, Giulio, raffinato intellettuale, Paganin, Franco il siciliano, sepolto in una ragnatela di tatuaggi, che gli lascia di umano solo gli occhi e le mani; e altri, altre, sagome sudate, distratte, che mi tengono desta l’attenzione per un minuto, o che mi addormentano la coscienza con le parole dell’insignificanza, spacciate per novità … televisive.
Una lucertola lecca gli avanzi sfuggiti a qualche bocca frettolosa, che alle due si rifugia a sudare nel solarium del Pluricenter. Si ritira nella sua fessura, lasciandomi solo a fare i conti astronomici di dove sono. Probabilmente a est. Il mio est, quello del sud, lo vedo nascere, terso e metallico dal mare, prima ancora che il sole, come un vecchio ufo, irradii le pianure e i calanchi sterminati. Qui a Bologna, l’est lo rintracci a sole alto, tra comignoli, edifici lugubri, stazioni ferroviarie e cartelloni pubblicitari bucati dal vento. L’ovest si butta, anonimo, nelle incerte colline dell’Appennino tosco-emiliano. Ma, quando il sole non c’è, e incalza la bruma, e il paesaggio diventa rettilineo e senza confini, l’angoscia mi prende, e cerco un punto cardinale, che trovo lì, in quel ciuffo di erba-vento, che chiude la fessura della lucertola. Quell’erba, tenera e bruna, cresce solo se è ossigenata dai venti freschi del nord. Il Nord! … L’eresia capitalistica e guerrafondaia, che fece dire a un portavoce dell’esercito americano, il secolo scorso,: “Il nostro problema consiste nel combattere con una grande potenza militare e con una scarsa forza politica (e culturale?) un avversario dotato di enorme potenza politica (e culturale?), ma di modesta forza militare”. N. Chomsky, Cosa fanno le teste d’uovo, De Donato, 1967, pag. 52.
Non invidiare quelli che salgono, sono quelli che vedrai scendere quando tu salirai, suggeriva una vecchia massima, a proposito delle due scale mobili della “storia”, che portano su e giù, a seconda dell’abilità, non astronomica, ma machiavellica, di digitare i puntini strategici del comando e dell’arbitrio. Questa contraddizione apparente tra i punti cardinali del mondo, avrebbe potuto sanarla solo il borioso Hegel, se non si fosse impigliato nel mito eurocentrico, che lo portò a dimenticare tutto ciò che sta a destra e a sinistra di noi, spiantati e spellati. Anche la “Bella Grecia”, commise l’errore di chiudere un pezzo di mondo a ovest con le Colonne d’Ercole, e un altro a est, da cui sciamavano secoli di poesia e di silenzio, che furono macinati senza scrupoli da una Logica autoritaria e diplomatica, attenuata, per senso di colpa, da quell’ironia socratica, sciolta, dissolta, e assolta dallo sguardo pazzo di Nietzche, dopo oltre duemila anni.
C’è sempre un nord sopra la nostra testa e un sud sotto i nostri piedi; spaccati come Cristo in Croce troviamo l’est e l’ovest.
A me piacerebbe che un giorno i delegati dell’umanità senza confini, si incontrassero sotto un cielo senza stelle e senza sole; senza montagne, fiumi e laghi, come in una plaga sorda e immota, nella quale hai perso ricordi e storia, e sei lì solo in attesa di sapere quando e se qualcuno accenderà il movimento del divenire. Non c’è nemmeno il vento, che ti spinga verso un dove. A Marco ho parlato di questa bussola senza aghi, e lui è rimasto incerto e disorientato. E, per tirarlo fuori dall’imbarazzo, gli ho detto che se avessi ancora un po’ di forze, e il mio enfisema mi consentisse di respirare senza rantoli, terrei in quell’osteria, l’ultimo mia lezione fuoricorso, non per edificare, ma solo per invitare a piangere, e a versare in uno stesso vaso il precipitato bipolare del dolore e del riso, che si disperde sui tavoli viola dell’osteria, i testimoni discreti di tante chiacchiere buttate al …. al vino. Del resto, agli occhi non dobbiamo nessuna spiegazione, se il pianto è riso, o angoscia. Gli occhi, quando “piovono”, diventano i datori di lavoro degli spazzini e dei postini dell’universo, che asciugano e consegnano i liquidi differenziati della … vita? Dove?
Ultimo pomeriggio a Bologna. Sono alla stazione centrale. Brusìo di libertà, gente senza direzione ed identità, masse meccaniche ferme ai semafori, che al verde rimettono in moto la moviola impudica di gesti, sguardi, parole, come in un giardino senza recinto, nel quale si piscia, si balla, si beve, si urla, protetti dalla omertà di uno spazio-dimora, nel quale mi ostino ancora a distinguere tra residenti, perieci e meteci, e schiavi, con la variante disgustosa di quella “banalità del male”, che offre a questi ultimi la eterna durata di uno sguardo proteso a nord prima di essere buttati in mare, senza aver assaggiato il gusto salato della illusione. In questo giardino, come al tavolo dell’osteria, o quando cammino sotto i portici di via Saragozza, “bagnato” dagli odori di tanti colori umani, mi sento anche io felicemente un Rom. Tra due giorni, riposerò nel mio lago giallo di ginestre, corteggiato da superstiti fiocchi di pioppo randagi. Stigliano. Siederò al tavolo di un bar anche qui, il pomeriggio, e aspetterò le ombre vaghe della mia umanità diradata, spoglia di vecchi morti, che nel rispettoso silenzio della fine, mi regalavano sguardi struggenti di nostalgia.

Stigliano, li 24 giugno 2015.
Nell’Urrrlo del Colombo Rocco Griesi

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