Microstoria di un Teatro sotterraneo

L’incontro è del tutto fortuito, ma carico di una fortunosa portata simbolica. E’ il 21 gennaio 2017, e mi ritrovo in compagnia del mio amico dottor Leonardo Digilio, nello stabile della suocera (via Zanardelli 57), signora Lavaia Angela, classe 1924, popolana gentildonna, gentile e affabile, e, soprattutto, straordinariamente lucida e loquace.
E’ il giorno del mio compleanno, e lui, Leonardo, senza saperlo, mi fa dono di una vecchia bottiglia di Aglianico. Mentre ammiro i graziosi lavori di restauro dello stabile pianterreno, un tempo laboratorio di falegnameria della famiglia Lavaia, l’occhio cade sui mattoni rossi della parte di fondo, esaltati dalle simmetrie laterali di pietre bianche ben allineate, venute alla luce dopo decenni di sonno sotto un doppio e ruvido, intonaco di calce.

Lavaia Angela
Lavaia Angela

Quello spicchio di quadrato spaccato a metà, “sembra, dico, un vecchio palcoscenico teatrale……”. Leonardo filosofo di istinto e naturalista, mi guarda e, nel suo stile laconico, frammentato e carico di novità, mi racconta, davanti agli occhi estasiati della suocera, che lì, in quell’angolo, nei primi decenni del 900, quando la signora Angela aveva 12/13 anni si faceva ….teatro !!
Sembra una profezia. Leonardo e la signora Angela parlano a lungo e con calore.
Io, rischiando di offendere il loro racconto conviviale, sento il bisogno di scrivere le quattro righe che seguono, che, se non rendono conto della storia reale di quei momenti, spero lascino nell’etere povero del nostro sito, qualche riflessione sulle voragini dei nostri anni lontani.
Teatro è il luogo dove si “vede”, non si guarda, perché vedere significa andare oltre lo sguardo, e toccare con una sonda invisibile le visceri, il dolore, e il tormento….I guitti e gli elfi che lì, in quello stabile salivano su quel palco naturale, forse non erano consci della loro missione catartico-teurgica, ma certo vibravano, commossi ed inebetiti, su un canovaccio annodato a dialetti trasversali, che avevano l’inconscia speranza di trasmettere a spettatori infreddoliti e distratti un graffio di pensiero vagabondo.
Il Teatro a Stigliano! Forse ne accenna Carlo Levi, nella sua antropologia mistica spostata al sud da una miracolosa eterogenesi dei fini.
Anonimo, sperso negli occhi e nelle orecchie di quegli avventurieri, di pionieri involontari di dissenso e di cruda cultura, di portatori miserabili di poesia non morta, traballanti sopra gli aliti di spettatori ubriachi e attenti.
Per fortuna, via Zanardelli 57! Perché, a pochi passi, svicolando, gli eserghi odonomastici del delitto e del terrore: Piazza Colonna, via Cialdini, Corso Umberto…..; e nei vicoli a salire, Vico Solferino, Fratelli Bandiera, per addolcire la tetra planimetria di un paese ovvio, scisso, fino ieri, tra repubblicani e monarchici, in una partita referendaria digiuna di democrazia; affamato di miti e di echi; stantio nelle domande e lento nelle risposte; e nudo e indifeso di fronte all’arte e alla cultura, atti blasfemi di ieri e di oggi, se non vidimate dalla oleografia liturgico-politica delle patetiche oligarchie dominanti.
Questo reperto di teatro umido e occasionale mi affascina per il suo stile senza forma per la sua verità senza documenti, e per la sfida lanciata a quei tempi agli intellettuali di turno che alimentavano il mito della coscienza “malata”, o soffiavano sull’irrefrenabile ipercinesia futurista, nel confuso subbuglio tettonico-ideologico di fine ottocento e di primo novecento.
Quel paese, questo paese, ieri come oggi, sconta un peccato originale, o gode di un privilegio simbolico non scritto: non ha mai deciso, nella sa irritante apatia, se sia importante mota quietare o quieta non movere.
E il Gattopardo, in questi luoghi, avrebbe trovato forme più sublimi di ispirazione.

Rocco Griesi

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