Fra tenebre e luce

Nel Vangelo secondo Giovanni (3, 19) è scritto: “… et dilexerunt homines magis tenebras quam lucem”, che nel luminoso splendore musicale della lingua greca suona così: “… kaì egápesan oi ánthropoi mãllon tò skótos ē tò fõs”.
Di fronte ai tristi eventi del nostro tempo, sempre più ossessiva, ritorna in mente la nota espressione giovannea, che evoca la terribile disposizione dell’anima umana a privilegiare le tenebre rispetto alla luce.
Oggi più che mai, e ad ogni latitudine, gli uomini sembrano scegliere le tenebre del male, della violenza e dell’inganno, anziché la luce del bene, della pace e della rettitudine. Salvo poi declinare ogni responsabilità, addossando la colpa degli effetti disastrosi di scelte evidentemente errate o ad altri, o al destino cinico e baro, o alla malvagità della Storia. O, molto frequentemente, alla crudeltà di un Dio, cui viene imputato di distogliere, impietoso, il suo sguardo benevolo proprio dai più indifesi e bisognosi di aiuto. Magari, in quest’ultimo caso, i più intransigenti e aggressivi sono coloro che da sempre hanno proclamato la morte di Dio, facendo aperta professione di un convinto ateismo.
Tale fenomeno ricorre insistentemente. Che riguardi lo scenario orripilante delle stragi del Bataclan a Parigi, del lungomare di Nizza o del mercato di Natale a Berlino. Ma anche lo spettacolo apocalittico delle imbarcazioni stracolme di profughi, che scappano via dalla guerra o dalla miseria. E la stessa tragica visione di tante vittime innocenti in occasione di un terremoto: oggi ad Amatrice, a Norcia e in altri suggestivi borghi del centro della penisola, qualche anno fa in Irpinia o in Friuli.
Sempre persiste la deprecabile consuetudine di girarsi da un’altra parte, per cercare cause e responsabilità di eventi negativi. Spesso lo si fa, come si è accennato, guardando accanto, additando gli altri. Altre volte volgendo lo sguardo in alto, verso il cielo, per attribuire ad un Ente lontano e spesso misconosciuto la responsabilità del male e del dolore, che toccano l’umana esistenza. Mai che si pensi di guardarsi dentro, quanto meno per indagare e interrogarsi se mai si possa supporre una nostra responsabilità, o, almeno in percentuale, una nostra corresponsabilità.
Anche restringendo il campo di osservazione, risalta la non commendevole abitudine di evitare una salutare introspezione personale e, se è il caso, di un atto di contrizione e di pentimento. Che sono la premessa ineludibile del ravvedimento. Solo pochi esempi valgano a suffragare il nostro ragionamento.
E’ noto che la storia della Lucania-Basilicata, una piccola regione con un territorio ancora più fragile di quello pur precario del resto d’Italia, è stata segnata nei secoli da molte calamità. Una lunga teoria di eventi funesti avrebbe dovuto essere di ammonimento e indurre ad un atteggiamento più rispettoso dell’ambiente fisico ed antropico.

foto di sarconiweb
E’ sotto gli occhi di tutti, invece, lo scempio che da parte di lobby politiche ed affaristiche si è fatto e si continua a fare del territorio, che pure è ricco di non irrilevanti risorse, come l’acqua e il petrolio, contribuendo impunemente al suo dissesto idro-geologico e al suo inquinamento. Senza dire della desertificazione delle aree interne, causata da scelte politiche nazionali, regionali e locali spesso sciagurate e incomprensibili.
La stessa minuscola regione del Sud, di cui continuiamo con orgoglio a rivendicare le origini, negli ultimi anni è salita frequentemente alla ribalta per i deprecabili comportamenti di tanta parte della classe politica, accusata, e spesso rea, di atti immorali dettati da un’ingordigia senza limiti.
Poco si riflette sul fatto che, se anche ciò fosse vero, è lapalissiano che una lunga lista di corrotti presuppone necessariamente l’esistenza di un gran numero di corruttori. Che poi magari, nella stragrande maggioranza dei casi, continuano candidamente a proporsi e ad essere accettati come modelli virtuosi nella comunità civile, senza averne titolo e prerogative.
Nel contesto di una regione che, pur potendo contare su un prezioso patrimonio storico, culturale e ambientale, è stata condannata all’insignificanza dall’insipienza degli uomini e non dalla malevolenza divina, suscita una particolare sofferenza la realtà disastrosa di un paese come Stigliano.
Fino a pochi decenni fa “capitale” della montagna materana, la comunità stiglianese si ritrova oggi svuotata da uno spaventoso calo demografico e devastata nel suo tessuto urbanistico da una serie di frane spaventose. Gli squarci disturbanti e orribili dei due luoghi, che hanno ospitato fino a ieri la rupe del Castello dei Colonna e il Centro Sociale, sono l’emblema di un disfacimento del territorio, cui hanno concorso le malefatte o la superficialità degli uomini, amministratori e cittadini, più che l’avversità della natura.
E’ appena il caso di ricordare che, per le infelici scelte operate negli ultimi tre o quattro decenni, vi è stata una folle corsa ad arrampicarsi sulle pendici del monte Serra e dar vita a una cementificazione arbitraria e scriteriata, mentre più giudiziosamente in paesi non lontani, come Sant’Arcangelo, Pisticci e Marsico Vetere, si decideva il trasferimento a valle di parti consistenti dell’abitato, facendo nascere San Brancato, Tinchi, Villa d’Agri.
Non può stupire che la montagna, ribellandosi alle violenze dell’uomo, abbia presentato il conto in maniera inappellabile. E così oggi esiste il rischio concreto di un isolamento, che sarebbe letale per una comunità già spogliata di molti servizi essenziali.
Forse è giunto, dunque, il tempo, di un sereno esame di coscienza, di una profonda riflessione e di una doverosa assunzione di responsabilità, individuale e collettiva, rinunziando una buona volta al facile e comodo gioco dello scaricabarile e della facile demagogia. E’ giunto il tempo di capire che il potere più importante di una comunità è fondato sulla coscienza civile personale e solo partendo da essa si può e si deve ridisegnare il progetto di un futuro credibile, che salvaguardi almeno una dignitosa sopravvivenza. Le rivoluzioni vere iniziano sempre all’interno di ciascuno di noi.

V. Angelo Colangelo

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